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LE STORIE CHE RACCONTIAMO

Etgar Keret

6 Giugno 2016

Della mia storia personale si può parlare come di una storia di guerra continua. Chi racconta storie ha però un privilegio: può decidere quali aspetti della propria vita sono importanti e quali tengono insieme stagioni tra loro diverse. E’ vero: sono nato nella guerra del ’67, per quella del ’73 andavo alle Elementari, facevo le Superiori con la guerra del Libano e la mia vita avanza tra una guerra e l’altra. Eppure, credo che la nostra libertà di esseri umani sia di poterci scegliere una biografia alternativa.

Quanto a memorie di guerra, vi dirò che uno dei miei più vividi ricordi d’infanzia risale alla guerra dello Yom Kippur. Era il ’73. La guerra scoppiò nel Giorno dell’Espiazione, prendendo Israele di sorpresa. Tutti i soldati vennero improvvisamente chiamati al fronte e ricordo una camionetta militare sotto casa che aspetta mio padre, ed io che dall’altra stanza lo guardo in cucina prendere un foglio e dire a mia madre: “Se muoio in questa guerra, vendi l’appartamento. Dovrebbe valerti 40.000 lire,” la valuta dell’epoca. “A questo tizio devi dare 5.000 lire, a questo 4.000, a quest’altro 6.000. Ti rimarranno 8.000 lire.” E mia madre: “E dove vado a vivere con i bambini?” Mio padre la guarda e dice: “Sei una donna intelligente, te la caverai!” Poi scende verso la camionetta, saluta con la mano e se ne va. Questo è uno dei ricordi più vividi della mia infanzia: quest’idea che la vita sia estremamente fluida e trasparente; che un secondo si sia vivi e quello dopo si possa salire su una camionetta e non tornare più. Ma, ripeto, la biografia di guerra non è quella che mi sono scelto.

Mi hanno suggerito di non tenerla troppo lunga, cosa che, essendo la mia prima volta in una cappella, mi riuscirà bene, perché basta guardarsi intorno e vedere Gesù sulla croce per ricordarsi cosa succede a un ebreo che parla troppo. Ebbene, oggi volevo parlarvi dell’importanza che ha per me il racconto orale. E questo non perché pensi che il racconto orale sia in qualche modo più importante della letteratura scritta: il mio è solo un tentativo di fare una sorta di confessione. Trovandoci in una cappella, potrebbe persino essere appropriato. Per tutta la mia vita da scrittore, interrogato su quali autori mi avessero maggiormente influenzato, facevo sempre i nomi di, ad esempio, Kafka o Bashevis Singer. In questo modo avevo l’impressione di fare quello che ci si aspettava da me, ma anche di non dire tutta la verità. Credo, infatti, che le storie che hanno formato la mia identità, non solo come scrittore, ma come essere umano, siano nate molto prima. Dovendo poi essere pubblicata, più volte mi è stato chiesto il testo scritto di questa conferenza. Per il bene che voglio a Beatrice e per quel po’ di timore che mi incute, è stato davvero penoso rifiutarmi, ma l’idea di scrivere un discorso sull’importanza del racconto orale per me è un ossimoro: come fare un film porno sull’importanza di mantenere la verginità. Le due cose non vanno molto d’accordo e così mi sono preso il rischio di parlare del racconto orale per via orale.

Entrambi i miei genitori erano superstiti dell’Olocausto e nessuno dei due ha avuto un’infanzia normale. Mia madre si è vista uccidere davanti agli occhi la madre e il fratello e ha perso tutta la famiglia nel ghetto di Varsavia. Mio padre è sopravvissuto alla guerra con i genitori, rimanendo nascosto per due anni in una buca scavata nel terreno. Quando poi si sono fatti una famiglia – quello che durante la guerra era il loro sogno più grande, qualcosa di apparentemente irraggiungibile: sopravvivere e mantenersi fisicamente e psicologicamente integri per poter un giorno incontrare un’altra persona con cui condividere la vita ed avere dei figli – ebbene, una volta realizzato quel sogno volevano essere i migliori genitori al mondo. Ero ancora molto piccolo quando mia madre mi disse che di solito il modo in cui si è genitori dipende dall’infanzia: se questa è stata felice, si imita e riproduce il comportamento dei propri genitori; se invece è stata orribile, si cerca di fare l’esatto contrario. Nel mio caso, ero un bambino quando mia madre mi disse: “Non ho punti di riferimento: i miei sono morti troppo presto perché sappia come deve comportarsi un genitore, quindi con te farò degli esperimenti e, se faccio qualcosa di sbagliato, dimmelo e cercherò di fare in altro modo.” Non le ho mai detto di fare in altro modo, perché il sistema che proponeva mi sembrava perfettamente logico, e così mi sembra ancor oggi, per quanto mi renda conto che non è normale. Per esempio, a casa nostra c’era una regola molto semplice: se pioveva non si andava a scuola, perché, diceva mia madre, “non insegnano nulla di così importante per cui valga la pena bagnarsi.” Ed aveva creato un’infinità di altre regole e leggi che, m’immagino, erano logiche per un bambino come me, cresciuto in un suo mondo immaginario.

Uno dei ricordi più vividi che mia madre conservava dei suoi genitori era quello delle storie della buona notte. Entrambi i miei genitori erano molto istruiti: leggevano in sei lingue diverse e casa nostra traboccava di libri. Ma quello che mia madre ricordava erano le storie orali che sua madre e suo padre le raccontavano nel ghetto, dove non c’era modo di procurarsi libri per bambini. Così, ogni sera dovevano inventarsi una nuova storia e per tutto il giorno andavano raccogliendo idee, pensieri e immagini che di sera si sarebbero materializzate in quella nuova storia, la storia del giorno, che era una vera e propria manifestazione d’amore. Quando mise su famiglia, lei volle fare lo stesso. Ovviamente sapeva che sarebbe potuta andare nella libreria più vicina e comprare Alice nel paese delle meraviglie o Winnie-the-Pooho un qualunque altro classico, ma per lei leggere una storia da un libro era un po’ come ordinare una pizza per cena. E’ tipico dei genitori pigri. “Un genitore pigro,” diceva con spregio “compra la storia di qualcun altro, perché è troppo pigro per creare una storia speciale per il proprio figlio.” E il fatto che quelle storie fossero orali e avessero una vita sola, perché poi svanivano nel mondo come sculture di ghiaccio, rendeva quelle storie speciali sia per lei sia per me. Mia madre aveva uno straordinario talento immaginativo e creava storie con estrema facilità: storie legate sempre agli avvenimenti del giorno, a qualche dettaglio minuto che, un po’ come la foto di un ostaggio con il giornale, ne provava l’attualità e la freschezza, come a dire che non erano vecchie storie congelate e scongelate per l’occasione, ma che erano appena state sfornate.

Le storie di mia madre mi piacevano tantissimo, ma capitava che dovesse lavorare fino a tardi o che non si sentisse bene, e allora toccava a mio padre raccontarmi qualcosa prima di andare a letto. Siccome in casa non c’erano libri per bambini, il sistema a cui doveva ricorrere era lo stesso, solo che mio padre non sapeva inventare storie. Sicché, quando era il suo turno, mi raccontava sempre storie che in sostanza erano cose che gli erano capitate. Fu quella la mia prima introduzione alla ‘non-fiction’. Se le storie di mia madre erano un insegnamento sul potere dell’immaginazione e, in fondo, su come il mondo in cui viviamo sia illimitato, perché si può sempre immaginare qualcosa di nuovo e allargare gli spazi, e su come in realtà tutti i muri che ci circondano siano trasparenti e li si possa attraversare, le storie di mio padre mi insegnavano altro. Queste parlavano sempre di persone che ai miei occhi di bambino sembravano comportarsi male; lo scopo del racconto non era però quello di giustificarle, ma di immedesimarsi e comprenderle. Alla fine, qualunque cosa facessero, i personaggi di tutte le sue storie risultavano umani. Se possibile, queste storie mi piacevano persino di più, forse anche perché erano più rare e perché vedevo che mio padre sudava nel raccontarle. Infatti, mentre mia madre si trovava completamente a suo agio in quella situazione, lui ne era terrorizzato.

Le storie che mio padre raccontava avevano tutte una cosa in comune: si svolgevano sempre in un bordello e i protagonisti erano invariabilmente prostitute, mafiosi e ubriaconi. Avevo cinque anni e se gli chiedevo: “Cos’è una prostituta?”, lui mi rispondeva: “Una prostituta è una persona che viene pagata per ascoltare i problemi di altre persone.” Quando chiedevo: “E i mafiosi cosa sono?”, lui diceva: “Beh, i mafiosi sono persone che riscuotono l’affitto da tutti, anche da chi non è loro affittuario.” E quando gli chiedevo cosa fosse un ubriacone, la sua riposta era: “Ah, sono persone con una malattia per cui più bevono e più sono felici.” Già all’età di cinque anni mi trovavo di fronte ad un dilemma professionale: non sapevo se da grande volevo essere un prostituto ubriacone o un ubriacone mafioso, perché dalle storie di mio padre entrambe queste scelte professionali sembravano molto promettenti. All’età di dieci anni, però, mi resi conto che quello che mio padre mi aveva detto non solo non era vero, ma non era adatto ad un bambino. Così, lo presi da parte e gli parlai molto seriamente. Gli dissi: “Non avresti dovuto raccontarmi quelle storie.  Mi devi spiegare perché l’hai fatto.” E mio padre disse: “Quando ero steso nel letto al tuo fianco, di primo acchito ti avrei raccontato una storia della mia infanzia, ma poi pensavo: ‘Che storia dovrei scegliere? Dovrei raccontarti la storia di come i nazisti catturarono mia sorella e la torturano a morte perché si rifiutava di dire dov’ero nascosto? Dovrei raccontarti la storia di come, quando venni tirato fuori dalla buca nel terreno, avevo muscoli così rattrappiti che non riuscivo a muovermi?’ Non mi sembrava che queste fossero delle buone storie per un bambino di cinque anni. Volevo raccontarti una storia di speranza e felicità, così ho sfogliato la mia vitafinché non ho raggiunto quella parte in cui a guerra finita cercai di venire in Israele, ma anche questa storia era triste, perché in Israele venni catturato dai britannici e rispedito in Europa, a Cipro, in quanto immigrante illegale. Subito dopo mi unii all’Irgun, un movimento clandestino che combatteva i britannici e, siccome mi era proibito entrare in Israele, l’unico modo in cui potevo dare un contributo era comprare armi da fuoco per combattere i britannici. Con questo compito fui mandato in Italia, a Reggio Calabria. Qui Cosa Nostra ci forniva le armi da contrabbandare in Israele, ma siccome non potevo permettermi un affitto, dormivo nei giardini pubblici. A quelli di Cosa Nostra la cosa non piaceva e mi dissero: “Per noi non è decoroso trattare con i senzatetto, fare affari con chi dorme nei parchi.’ Così, invece dei giardini pubblici, mi proposero di andare a stare in un bordello di loro proprietà. E aggiunsero: ‘Non devi pagare l’affitto, ma se arriva un cliente, esci e torna più tardi.’ Qui ho passato otto mesi della mia vita,” disse mio padre “gli otto mesi in cui sono tornato ad essere un essere umano. Per la prima volta nella mia vita non dovevo nascondere il fatto di essere ebreo; per la prima volta mi addormentavo e risvegliavo al mattino e non più per la paura nel cuore della notte; per la prima volta potevo andare alla ricerca dell’umanità tutt’intorno a me.” E disse anche: “E’ vero, le persone che mi stavano intorno non erano perfette, ma rispetto ai nazisti era tutta brava gente.”

Credo che dal buco nero dell’Olocausto sia uscito questo sguardo, questo modo di raccontare storie nel tentativo di umanizzare quanto ci circonda, che mi insegnò qual era il ruolo del racconto: non favoleggiare, abbellire la realtà, truccarla un po’ per darle un aspetto migliore, ma prendere la vita così com’è, per quanto brutta, e al suo interno trovare pur sempre qualcosa di umano che dia un senso al nostro stare al mondo. In una delle storie di mio padre c’era una donna. Ero un bambino, ma ricordo che di quella donna passò almeno quindici minuti a descrivere gli occhi. Aveva bellissimi occhi blu, così belli che chiunque li vedeva veniva preso dalla voglia di spogliarsi di tutto e tuffarsi dentro il loro oceano. Un giorno che ero per strada con mio padre la incontrai, ormai anziana, e la prima cosa che notai fu che era gobba. Dissi a mio padre: “Quando mi hai raccontato la storia hai parlato così tanto degli occhi di questa donna, ma non mi hai mai detto che era gobba. Perché dicevi che era bella? Non è affatto bella!” Lui mi disse: “Forse non è bella, ma hai visto che occhi?” Penso che spesso il racconto operi in questo modo, in particolare il racconto ebraico, chassidico. Quello che fa è trovare nelle storie una specie di conforto, di compensazione, che getti sulla vita una luce favorevole.

Dopo tutte le storie che mio padre mi aveva raccontato, non potevo che diventare un lettore vorace e lasciarmi alle spalle quelle storie orali. Ma, come un buon amico, queste sono tornate a farmi visita nel momento del massimo bisogno. A diciott’anni in Israele si entra nell’esercito. La leva è obbligatoria e dura tre anni: probabilmente gli anni più duri della mia vita, perché come soldato non valgo niente. A mia difesa va detto che vengo da una famiglia di soldati mediocri: il mio bisnonno fu un pessimo soldato dell’esercito zarista, anche mio padre come soldato valeva poco, e mio fratello è stato l’unico soldato nella storia di Israele processato e incarcerato per pratiche pagane. Io non ho fatto altro che perpetuare questa pessima tradizione militare. Fortunatamente il mio migliore amico era entrato nell’esercito prima di me ed era riuscito a farsi assegnare un incarico relativamente comodo in un reparto informatico. Convinse il suo comandante che ero un genio dell’informatica, cosa totalmente falsa, così venni trasferito in quel reparto dai turni lunghissimi in cui facevo quello che il mio amico mi aveva insegnato perché non si scoprisse che ero soltanto un ciarlatano che non sa nulla di computer. Durante la leva il mio migliore amico entrò sempre più in depressione, al punto che un giorno, temendo per la sua vita, lo portai dallo psichiatra militare che, dopo averlo esaminato, concluse che stava benissimo. Rientrammo nel nostro reparto (una stanza minuscola cinque piani sottoterra, come un rifugio). Lui doveva iniziare un turno e così gli dissi: “Senti, resto qui con te perché mi sembri depresso.” A un certo punto mi chiese di andare a prendere qualcosa in un’altra stanza; quando tornai lo trovai moribondo che si era sparato in testa. Chiamai aiuto; fu portato in ospedale ma non riuscirono a salvarlo. Subito dopo, l’esercito fece quello che normalmente fa in queste situazioni: mi prescrissero un esame psichiatrico in cui li convinsi che ero sano di mente. Ne furono così contenti che mi mandarono a sostituire il mio amico che si era appena suicidato: stesso turno e stessa stanza dove l’avevo trovato a terra, con la pallottola che si era sparato in testa conficcata nell’armadio di legno e con il pavimento lavato di fretta, che quando ci camminavi sopra sentivi il sangue appiccicarsi alla suola delle scarpe. Dovevo passare 24 ore da solo in quella minuscola stanza.

Ebbi allora la netta impressione che quella che mi aspettava era una lotta per la sopravvivenza, che, per quanto fossi armato, per quanto la mia vita facesse schifo, dovevo trovare in me stesso una qualche ragione per continuare a vivere. Finii così per tornare alle storie che mio padre mi aveva raccontato da bambino. Mi ritrovai seduto a raccontarmene una, e siccome le storie orali sono come sculture di ghiaccio che si sciolgono subito, a una storia ne seguiva un’altra e un’altra e un’altra ancora. Finché a un certo punto mi sedetti al computer che avevo in quella stanza, ne scrissi una e la stampai. Dovevano passare ancora parecchie ore prima che arrivasse il soldato che doveva darmi il cambio. Appena arrivò gli saltai addosso e gli dissi: “Ho scritto una storia. La leggeresti?” “Ma vaffanculo!” mi rispose. Così me ne uscii dalla base militare con quel foglio stampato. Il cambio turno era verso le 6 di mattina che, come sanno tutti gli scrittori, non è certo il momento migliore per trovare dei lettori. Alle 6, se incontri qualcuno per strada e gli chiedi di leggere una storia, sarà così irritato per essersi dovuto alzare a quell’ora che difficilmente sarà dello spirito giusto per essere il tuo primo lettore. Allora presi subito un bus verso il condominio di quel pagano di mio fratello, suonai il citofono e gli dissi: “Posso salire? Ho scritto una storia e vorrei tanto fartela leggere.” E mio fratello: “Guarda, sono le 6. Hai svegliato la mia ragazza. E’ incavolata nera. Che ne dici se scendo io e leggo la storia per strada?” “Certo!” dissi io. Scese insieme al suo cane, mi prese il foglio di mano e si mise a camminare. Il cane però aveva altri piani: era contento di uscire così presto e, insomma, voleva fermarsi a fare i suoi bisogni. Ci fu un po’ di tira e molla, di cui però mio fratello neppure si accorse, perché un istante dopo stava già camminando con il foglio in mano, trascinandosi dietro il cagnolino mentre leggeva. Il povero animale cadde su un fianco ed io sentii il bisogno di dire a mio fratello: “Aspetta! Il cane!” Ma alla fine vinse l’egoismo, perché lo vedevo intento nella lettura e non volevo disturbarlo. Quindi me ne stetti zitto, e che tutti i cani del mondo possano perdonarmi! Ma per loro fortuna le mie storie sono molto corte; dopo un paio di isolati infatti mio fratello si fermò e il cane si ricompose e fece quello che avrebbe voluto fare subito. Mio fratello venne verso di me, mi abbracciò e disse: “Ti ho sempre voluto bene, ma non sapevo che potevi scrivere qualcosa di così bello.” Lo guardai negli occhi; erano umidi; stava quasi per piangere, e mi chiese: “Ne hai un’altra copia?” “Certo!” dissi io, e lui si piegò, con il foglio raccolse la cacca di cane e la gettò in un cestino.

Fu in quel momento che capii di voler fare lo scrittore. Il gesto di mio fratello mi aveva riportato indietro alle storie d’infanzia che raccontavano i miei genitori, mostrandomi che un libro è solo un mezzo, non un fine. Un libro è come un tubo, per cui scrivendo quella storia non ho fatto altro che versare qualcosa dal mio cuore e dalla mia mente nel cuore e nella mente di mio fratello. Fatto questo, lui non aveva più bisogno del foglio: la storia era ormai dentro di lui, proprio come le storie dei miei genitori avevano continuato ad abitarmi per tutti quegli anni. Da allora non ho più smesso di scrivere. Quando poi sono diventato genitore, una cosa mi sono ripromesso di fare: raccontare sempre una storia a mio figlio prima di metterlo a letto. Purtroppo per me, però, mia moglie è la figlia del più famoso scrittore per l’infanzia d’Israele e così è scoppiata una sorta di guerra domestica, con lei che diceva “Ho avuto un’infanzia meravigliosa con mio padre che mi leggeva i suoi libri!” ed io che dicevo “Ho avuto un’infanzia meravigliosa con i miei genitori che ogni giorno inventavano una storia nuova!”. Abbiamo quindi deciso che fosse nostro figlio a decidere. Ogni sera poteva scegliere tra una storia tratta da un libro ed una creata sul momento. Ben presto abbiamo notato che quando era tranquillo voleva una storia da un libro, quando era preoccupato una creata sul momento, come se nel racconto orale ci fosse qualcosa di terapeutico.

Ricordo che una sera – non avevo ancora iniziato a raccontare – mi disse: “Babbo, voglio chiederti qualcosa di molto, molto importante. Quanto può vivere un uomo?” “Beh,” dissi io “se fai sport e non fumi, puoi vivere fino a 120 anni.” Allora mio figlio si mise in piedi sul letto e cominciò a gridare: “Non è giusto! Non basta!” Io lo guardai e dissi: “Calmati, smetti di gridare!” ma lui non ne voleva sapere, perché, diceva, non era giusto, non bastava, 120 anni sono pochissimi, con tutte le cose che ci sono da fare si dovrebbe vivere molto di più! Io provavo a calmarlo, ma in fondo sentivo che aveva ragione, il che mi metteva in una situazione difficile. Se avessi potuto dirgli che, no, 120 anni sono persino troppi, che 35 bastano e avanzano, perché poi non si fa altro che ripetere le stesse cose: ecco, allora forse sarei riuscito a calmarlo, e invece a un certo punto avrei quasi voluto saltare sul letto con lui e mettermi a gridare anch’io “Non è giusto!”. Ma se mia moglie fosse entrata in camera sarebbero stati guai, così non lo feci. Feci invece quello che, stando a mia moglie, faccio sempre: iniziai a dire fregnacce. Dissi a mio figlio: “Sai, secondo la tradizione ebraica e quella indiana quando si muore non finisce tutto. Ci si reincarna e si torna in questo mondo e si vive un’altra vita.” Per qualche strana ragione questo servì a tranquillizzare mio figlio, che allora mi disse: “Sai cosa? Quando muoio e ritorno in questo mondo, voglio reincarnarmi in un gatto.” Io allora gli dissi: “Secondo la tradizione ebraica e quella indiana è meglio reincarnarsi in un essere umano.” E lui: “E perché?” “Perché,” dissi io “l’anima passa da una vita all’altra, nella nuova vita si fanno molte scelte, e se si fanno quelle giuste, l’anima migliora.” Lui mi guardò e disse: “Molte scelte? Credo sia per questo che voglio reincarnarmi in un gatto.”

Quella sera raccontai a mio figlio la storia di un ragazzo che viene trasformato in gatto. E quando finii il racconto, lui mi chiese: “Babbo, mi faresti un favore?” Ed io: “Certo.” “Quando mi addormento,” disse lui “ti dispiacerebbe andare al computer a scrivere questa storia, così poi la pubblichiamo e diventa un libro?” Ed io: “Sì, ma perché dovrei farlo?” Lui mi guardò e disse: “Come perché? E’ così che ci guadagniamo da vivere, no?” Appena mio figlio si addormentò, come un buon soldato scesi al computer, scrissi la storia e la mandai all’editore, e così ne è uscito un libro per bambini. Quando poi ho avuto quel libro sottomano, ho pensato che si chiudeva un cerchio lungo quanto la mia vita: dalle storie orali che i miei genitori mi raccontavano da bambino a questo libro stampato che mio figlio mi aveva chiesto di scrivere. 

Traduzione di Giovanni Giglio
(giogiglio08@gmail.com)