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Scendere al fondo

Jenny Erpenbeck

3 giugno 2021

Traduzione di Bettina Ricceri

Noi qui stiamo su un suolo storico. Il mondo sotterraneo di Firenze è abitato da Michelangelo, da Galilei, da Rossini. Oltre settecento anni fa, questa è stata la città di Dante. Costretto all’esilio, mantenne il legame con la sua vita fiorentina passando per il regno dei morti. Ai defunti ha dato in prestito la sua lingua. E annullato, nel dialogo con l’aldilà, quella differenza irrilevante tra le epoche. Da tedesca sono abituata a credere da sempre che l’oltretomba sia abitato. Sul selciato di Berlino, la mia città natale, e sul selciato di molte altre città, un tempo hanno camminato persone, dei cui figli e nipoti mai nati si sente tutt’oggi la mancanza.

Cosa resta? Di coloro che se ne sono andati prima di noi – e di noi stessi? Cosa resta? È una delle grandi domande che ogni scrittore si pone. Interrogarsi su cosa è stato. Conservare in parole ciò che è passato, ciò che si è dimostrato fugace. Iside ha raccolto le parti del corpo smembrato dell’amato Osiride, che erano state disperse dal Nilo, le ha ricomposte tra loro, e nel ricongiungerle ha nominato quel corpo parola per parola, ha raccolto il defunto in un testo, così da ridonargli unità e riportarlo in vita attraverso il suo amore. Ti siano dati i tuoi occhi per vedere/ le tue orecchie per ascoltare ciò che viene pronunciato,/ la tua bocca per parlare,/ le tue gambe per camminare./ Che mani e braccia siano al tuo servizio./ Che la tua carne sia compatta e le tue vene in salute./ Che tu possa godere di tutte le tue membra![1] Inni funebri dell’antico Egitto. Già da quattromila anni le persone credono nel potere del linguaggio di superare il confine eretto dalla morte tra l’aldiquà e l’aldilà. Il potere del linguaggio. Se c’è qualcuno che parla. Qualcuno che compie l’evocazione. Qualcuno che ama. Qualcuno che tiene al ricordo. Una persona vive quando il suo nome è pronunciato[2]. Prima di entrare nell’oltretomba egizio il cuore viene pesato e poi rimesso al suo posto se il defunto si è dimostrato degno. Ti restituisco il cuore da parte di tua madre,/ lo rimetto al suo posto nel tuo corpo,/ in cui sei florido e ringiovanito [3]. L’idea del giudizio sui morti esiste da quattromila anni. Da quattromila anni i vivi si misurano con la morte, e la morte con la vita.

Il filosofo Giorgio Agamben di recente in un suo articolo [4] ha richiamato l’attenzione sulla differenza tra i concetti di ge e chthon nell’antica Grecia. Da un lato chton, il mondo infero che è rivolto verso le viscere della terra; dall’altro ge, la faccia che la terra volge verso il sole. La sposa di Zeus è Chthonìe: ma sul mantello, in cui Zeus l’avvolge nella loro notte di nozze, sono tessuti i profili di Gee Ogeno, il suolo terrestre e l’oceano. Quindi ciò che da noi viene chiamato mondo e che ci nutre è solo in superfice: la terra su cui crescono gli alberi, i frutti, i cereali e i fiori. Ma al fondo riposano i morti.

Dante cerca le anime dei defunti nelle profondità, va a far loro visita. La linea della cintola di Lucifero per lui segna la metà oscura del nostro pianeta. Là l’angelo ribelle è bloccato dal giorno della sua caduta dal cielo. Sta là, produce vento gelato e con le sue tre bocche divora i traditori Bruto, Cassio e Giuda fino al giorno del Giudizio Universale. In nessun’altra opera come nella Divina Commedia emerge tanto chiaramente l’entità dell’esautorazione causata dalla morte, oltre al decadimento fisico del corpo: è un’esautorazione che riguarda la memoria, la sopravvivenza sociale nei ricordi dei viventi. Ma quando tu sarai nel dolce mondo,/ pregoti che alla mente altrui mi rechi (Inferno VI/88, 89). Silenzio di morte. Il vivente ha il privilegio di poter raccontare storie. Scrivere storie. Dare spazio ai morti nel testo come preferisce. Separare il merito permanete dall’infamia permanente in base al proprio punto di vista. Strappare all’inferno dell’oblio questa o quella cosa, questa o quella persona. Invece di questa o quella. Può domandare se quanto fatto in vita resiste alla morte. Quella persona è stata buona abbastanza da meritare un posto nel ricordo dei vivi? O almeno abbastanza malvagia? Essere stato buono o malvagio, per il defunto non dovrebbe essere indifferente a patto di non cadere nell’oblio? A patto di riuscire a fare in qualche modo il salto: verso l’eternità del ricordo. De mortuis nihil nisi bene – Dante non vi si attiene e come lui nessun altro scrittore. È l’esatto contrario: dall’Inferno arrivano le storie migliori. Scrivere è ricordare. E il ricordo è uno strumento di potere.

Il drammaturgo Heiner Müller una volta in un’intervista ha detto: I morti sono il punto archimedeo. È solo con i morti che si può scardinare il mondo, poiché essi sono immobili. I racconti di ciò che è stato, chiaramente sono sempre i racconti di ciò che è. Ma c’è un aspetto determinante: chi crea il racconto – e chi lo ascolta, chi lo legge? Un morto può essere sfruttato dai vivi per i loro intenti, ma su di loro mantiene sempre il vantaggio dell’ostinata eternità della sua morte. Beethoven si è suonato ai suoi tempi, nel XVIII e nel XIX secolo, anche nel XX secolo, si è suonato sotto il nazismo, nella Germania dell’Ovest come anche dell’Est – e in tutto il resto del mondo. Oggi il suo “Inno alla gioia” è l’inno dell’Europa. La morte è l’inizio dell’immortalità ha detto Robespierre – e ha lasciato rotolare il capo del suo compagno rivoluzionario Danton nel cesto con la segatura. Ancora e ancora ci confrontiamo con i grandi del passato. Ancora e ancora ci fanno dubitare di noi stessi, cercano di afferrarci dall’aldilà per ricordarci qual è il termine di paragone. Quello che hanno fatto, nel bene e nel male, sta là come un libro aperto e vuole essere letto. Letto e riletto. Una delle poche gioie dell’invecchiare è comprendere sempre meglio quale posto occupiamo e abbiamo occupato nel mondo, ancor prima di iniziare persino a esistere. La storia della nostra vita è legata alle storie delle vite altrui, è legata alla cosiddetta “grande” storia. E la nostra carne è l’elemento, in cui essa si mostra. Ciò che noi siamo è molto più di noi e nel complesso è parte di un organismo vivente chiamato società. Passando per il regno dei morti scopriamo chi siamo. Tutti noi abbiamo il nostro posto nell’universo dantesco. Tutti. Nessuno può abbandonare l’umanità. E come ogni comunanza, questo abbraccio universale è al tempo stesso meraviglioso e terribile. Ci scalda, per così dire, in un ferreo abbraccio.

Mi trovo nella stanza che è il mio archivio di famiglia, tiro fuori cartelle con lettere e foto, ancora e ancora. Leggo, guardo, studio la vita dei miei antenati. La esamino attentamente. Il mio presente è il futuro di coloro che non esistono più. Cosa ne faccio di questo futuro regalato? Più sono le cose che comprendo, più sono le storie che vengono alla luce e più sono le verità che si manifestano ai miei occhi. Segreti, che erano celati al fondo del tempo, iniziano a parlarmi. Brillano da queste cartelle che sembrano fatte solo di carta morta. L’inizio del tempo, del mio tempo, il tempo che mi ha aspettata, un tempo da cui sono cresciuta ancor prima di essere viva. Profondità del tempo che è stato il mio inizio. Guardare noi stessi nell’altra persona. E cosa resterà di noi? Quale materiale produciamo noi, da vivi, e quale delle nostre storie verrà riportata alla luce, un giorno, da qualcuno, quando non esisteremo più? Quali delle storie che furono la nostra vita saranno dimenticate, mai conosciute, mai raccontate, fosse anche solo perché non c’è più nessuno che ne interroghi ancora e ancora il materiale. Mentre ricordiamo, ancora e ancora, anche noi invecchiamo, forse raggiungiamo a poco a poco ogni età della vita, che un defunto aveva avuto prima di noi, e forse riusciamo persino a superarla – e capiamo ciò che ha lasciato insieme ad altre cose, che ricordiamo, ogni volta in maniera sempre nuova e diversa. Mi trovo nella stanza che è il mio archivio di famiglia e tengo in mano una ricetta di mia nonna. Torta alla crema di burro. L’ha spedita a mia zia, sua figlia. L’ha spedita dopo che la figlia improvvisamente era stata separata da lei con la costruzione del Muro di Berlino. La sua casa continuava a vivere nella ricetta. Aveva spedito alla figlia la ricetta per una torta alla crema di burro – lei stessa aveva fatto la fame quand’era prigioniera di guerra. La sua salvezza dalla morte per fame e la salvezza della figlia vivono in quella ricetta. Buon appetito!, c’è scritto alla fine. Insieme alla ricetta ha spedito anche la sua voce, conservata in pochi caratteri. La sera aveva molto tempo per scrivere lettere, aveva sbattuto il marito fuori di casa qualche anno prima e ora viveva sola. La sua solitudine è scritta in quella ricetta. La ricetta per la torta alla crema di burro è molto più di una semplice ricetta. Lo stesso materiale contiene più storie. Ammesso che ci sia qualcuno che ne legga il contenuto. Ammesso che ci sia qualcuno che le scriva.

Ancora e ancora percorriamo le strade che hanno percorso i morti quand’erano ancora in vita, e vediamo che sono anche le nostre strade. E un giorno qualunque, quando non esisteremo più, forse avrà proprio le sembianze di questo stesso giorno. Gli mancheremo solo noi. Come al giorno di oggi mancano molte persone, che prima erano ancora qui sulla Terra. Dove sono? Il passato non è morto, in realtà non è neppure passato ha scritto una volta William Faulkner. Mia madre bussa alla porta, tre volte, invece di suonare, per non svegliare il mio bambino piccolo, che si è appena addormentato. Mia madre bussa alla porta, tre volte, invece di suonare. Mio figlio nel frattempo è diventato grande. Un’amica sta indossando gli stivali invernali, vedo le sue mani, le punte della dita e lo smalto color madreperla. Io allora avevo 17 anni e lei il cancro. Ho sentito, dice la madre di mio padre, che ci sono i neonazisti. Sì, è vero. Ma perché, Jenny? Dimmi perché? Caffè in tazze a motivi floreali blu, e biscotti. Jenny, dimmi un po’, ma cos’hanno in testa i giovani? Nel punto dove più di trent’anni fa ci siamo seduti a bere il caffè ora c’è il fasciatoio per i bambini di mia sorella. Il marito di mia madre si appoggia alla mia auto nuova e annuisce, un ottimo acquisto, dice. Mia madre ha fatto spargere le sue ceneri su un prato per non dover leggere il suo nome scritto su una lapide. Mentre faccio le valigie la nonna mi dà una mano, si siede su quella che non si chiude perché l’ho riempita troppo. E la partenza doveva essere già un’ora e mezza prima. “Già, già” dice lei, seduta sulla valigia e ride fino alle lacrime. Mia nonna riposa nella stessa tomba di mia madre.

Il mondo è abbastanza grande per condividerlo con chi non c’è più. Chi non c’è più è in ogni momento della mia vita. Il mondo invisibile è sempre qui con me, insieme a quello visibile. Il passato non è morto, in realtà non è neppure passato.

Quel punto/che del futuro fia chiusa la porta (Inferno X/107,108) – così Dante descrive il Giudizio Universale, quando il concetto di “futuro” perderà il suo significato. E nel Paradiso farà dire a San Benedetto a proposito dell’Empireo, l’ultimo cielo: Ivi è perfetta, matura ed intera/ ciascuna disïanza; in quella sola/ è ogni parte là ove sempr’era,/ perché non è in loco, e non s’impola. (Paradiso XXII /64-66). Nell’universo ultraterreno di Dante, il parallelismo tra dolore ed espiazione è un riverbero di questo annullamento del tempo prodotto dal Giudizio Universale. Figure mitiche, eroi omerici, divinità antiche come anche trovatori, politici contemporanei di Dante, santi cristiani e addirittura persone che con il corpo camminano ancora sulla terra, ma le cui anime nere sono già scese all’inferno – tutti costoro si incontrano nei deserti infuocati o ghiacciati di Dante, nel fango, nello sterco, nella pece o nella luce eterna. Il tempo terreno già qui non ha più alcun valore.

Allo stesso modo anche l’autore messicano Juan Rulfo si prende la libertà di prescindere dalla successione cronologica, il suo “Pedro Páramo” si legge come un sogno. In ricerca di suo padre, un vivente fa ingresso in un paese fantasma, lo ospitano stanze vuote abitate soltanto da voci, il vento soffia, crescono le erbacce, il cielo si scorge attraverso i tetti crollati. A un certo punto il narratore stesso si ritrova insieme ai morti, senza accorgersene lui stesso è scivolato di là nell’oltretomba e noi non ci siamo neanche resi conto quando. In Juan Rulfo i tempi sono permeabili, e lo sono anche i mondi. Aldiquà o aldilà, è solo una questione di percezione. Di conseguenza, a un certo punto il narratore non è più l’unico a raccontare la storia, gli subentrano altre voci. Sentiamo come sussurrano tra loro, come si lamentano, si ascoltano a vicenda per comprendere meglio cos’è accaduto ai loro amici, ai loro nemici, a Pedro Páramo, il potente, cos’è accaduto a sua moglie che ha perso la ragione. Cos’è successo a tutte le persone seppellite lì insieme a loro che non riescono a trovare la pace. Le due frasi che chiudono il romanzo sono fra le frasi conclusive più belle che abbia mai letto: Dopo pochi passi cadde, supplicando dentro di sé; ma senza dire una sola parola. Diede un colpo secco contro la terra e si sgretolò come se fosse un mucchio di pietre [5]. Questo libro trova posto nella mia biblioteca non lontano da Dante, nella parte dedicata alle lingue romanze. Una biblioteca del genere, è anch’essa un regno dei morti. E anche gli autori sussurrano tra loro quando nessuno li ascolta, da uno scaffale all’altro.

Walter Benjamin si trova in mezzo ai filosofi, dalla sua edizione tascabile azzurro chiaro usurata dalla lettura, ascolta Juan Rulfo, dall’altra parte presta orecchio, senza alcuna invidia come solo i morti sanno fare, anche a Dante, che vive in tre pregevoli volumi rosso scuro rilegati in tela con testo a fronte. In un suo saggio Benjamin descrive come tutto il narrato attinga la sua autorità dalla morte: l’autorità che anche l’ultimo tapino possiede, morendo, per i vivi che lo circondano. Quando in effetti allo spirare della vita, si mette in moto all’interno dell’uomo, una serie di immagini e l’indimenticabile affiora d’un tratto nelle sue espressioni e nei suoi sguardi [6]. L’essenza di una vita che diventa decifrabile soltanto gettando uno sguardo indietro su tutto ciò che è stato. Certe volte una vita del genere può ridursi a poche righe, come possiamo ammirare dalla maestria di Edgar Lee Masters nella sua “Antologia di Spoon River”, che a casa mia è presente in tre edizioni diverse sullo scaffale della poesia, là, illuminata da una lampada a stelo. In linea d’aria sta a un metro e mezzo da Benjamin e a tre metri da Dante, da Rulfo. Ma in una biblioteca, così come nel regno dei morti, le distanze, e soprattutto le vicinanze, non vengono misurate in metri. L’Antologia di Spoon River, un libro che apro e riapro, leggo e rileggo, che in ogni età della mia vita, mi ricorda di cercare l’essenziale: in una vita come in un testo. Edgar Lee Masters dà in prestito la sua voce ai defunti di una cittadina americana per dieci o venti righe. Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,/ L’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il rissoso?/ Tutti, tutti, dormono sulla collina.// Uno trapassò in una febbre,/ uno fu arso nella miniera,/ uno fu ucciso in rissa,/ uno morì in prigione,/ uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari –/ tutti, tutti, dormono, dormono, dormono sulla collina [7]. In Masters incontriamo i chiassosi, i silenziosi, e naturalmente i tiepidi, che in Dante, non avrebbero neanche messo piede all’Inferno, per non parlare poi del Paradiso. La morte rende possibile l’utopia della parità dei diritti. Anche coloro che sono rimasti muti per tutta la vita ora, che non vivono più, parlano della loro vita. Dieci o venti righe per ciò che è essenziale. Anche in Dante il più alto dei cieli, il nono, è quello essenziale, ed è il più piccolo. La bomba atomica che ha distrutto Hiroshima poteva entrare in un carretto a mano. In dieci o venti righe si rivelano segreti, si condivide con il lettore vivo l’esperienza di una vita intera, si racconta il momento della morte o i desideri più reconditi, l’invidia, le paure; emergono la vanità, il dolore, la gioia, la riflessione e la disperazione di coloro che da tempo riposano sotto terra – tutti i motivi e i rapporti nascosti che uniscono il gruppo di persone in un legame sotterraneo. Dieci o venti righe. Ignudi stanno sotto lo sguardo di Edgar Lee Masters gli organi di questo organismo sociale. Ciò che non è stato possibile in vita, lo diventa nell’aldilà: dire la verità. Stare al di là, stare al di là della paura della morte, la morte, la grande ricattatrice, lasciarsela alle spalle ed essere finalmente liberi di rivelarsi per ciò che si è. Edgar Lee Masters strappa la superficie delle anime per guardare nel profondo. Chthon. Ge. Stare al di là. Da Dante, e anche da Edgar Lee Masters, possiamo apprendere come si fa.

Scrivere, in fondo, non è altro che mettere sulla carta qualche lettera. Un sottile foglio di carta, staccato dalla realtà come uno strato di pelle. Ma scrivere fa qualcosa di questa realtà. Le stacca il presente come uno strato di pelle e lo rende un pezzo da museo. Lo trasforma in pietra. Anche la scrittura è un modo per spostare il presente dall’altra parte, nell’eternità. Un’amica, che ho chiamato di recente per domandarle di un viaggio che abbiamo fatto insieme 35 anni fa, ha detto di non ricordarsi più niente e di aver bruciato tutti i suoi diari. Bruciato? Sì, ha detto, bruciato, grazie a Dio, e di quella decisione non si è pentita neanche per un secondo. Una persona che ha bruciato i suoi diari un tempo è stata la mia migliore amica? Bruciare un diario che, insieme a tutte le ramificazioni con il resto del mondo – di cui chi scrive spesso non è consapevole e neanche è tenuto a esserlo – non appartiene mai solo a colui che l’ha scritto ma sempre e soprattutto all’umanità intera? Ma naturalmente capisco cosa intendesse fare la mia amica bruciando il suo passato. Aveva paura che l’immagine pietrificata della sua giovinezza, uscisse inesorabilmente dal diario per affrontarla. E così arrivo anche all’essenza dello scrivere: che è trasposizione della vita, della viva percezione in documento. Con la stessa passione con cui combatte il passare del tempo e l’oblio, la scrittura sottrae una persona, un evento, un luogo al presente, e inizia a somigliare a colei che cerca di scacciare: la morte.

Chi si volta mentre procede in avanti rimane pietrificato, come Euridice sulla via che la dovrebbe condurre fuori dall’Ade. Quando ero piccola credevo di avere più vite. E quando qualcuno mi chiedeva che cosa fossi già stata in passato, quale pianta, quale animale – allora rispondevo sempre che ero stata sicuramente una pietra e che un giorno forse sarei tornata a esserlo. Tutta la ricchezza dell’infanzia è soprattutto questa vicinanza al sentimento della morte, ha detto una volta Gregor von Rezzori in un’intervista. In altre parole direi: solo i bambini sentono che tutto è collegato, che ogni cosa è racchiusa nell’altra. E qual è il motivo per cui scriviamo, se non per restare quei bambini? Da piccola collezionavo pietre, durante le passeggiate camminavo sempre con lo sguardo rivolto a terra. Più tardi ho letto Ovidio le cui “Metamorfosi” raccontano di diverse pietrificazioni, tra cui quella del titano Atlante a cui Perseo mostrò la testa della Medusa: nam barba comaeque / in silvas abeunt, iuga sunt umerique manusque,/ quod caput ante fuit, summo est in monte cacumen,/ ossa lapis fiunt [La barba e i capelli passarono infatti in selve, le spalle e le mani sono balze, quello che prima era il capo, è il più alto cocuzzolo della montagna, le ossa divennero sasso [8]]. Davanti alla mia scrivania c’è una bacheca, su cui è affissa una cartolina del prigione Atlante di Michelangelo, probabilmente avete già visto tutti questa statua dal vivo, si trova qui a Firenze. Sembra che Atlante stia cercando di liberarsi dalla pietra di cui è fatto. Ma non gli riesce. È pietrificato, è lui stesso la pietra che sostiene, sostiene la propria prigionia nella pietra. Atlante era da sempre contenuto in quella pietra, ma solo Michelangelo lo ha visto. Questa interazione tra la capacità dell’arte di riconoscere, forma e significato in una materia amorfa, e quindi di rendere esperibile l’essenza e la struttura di una cosa vivente, da una parte – e dall’altra la trasposizione di questa porzione di vita in un mezzo, quindi il suo distacco dalla realtà, il suo imprigionamento in un testo, in un quadro, in una scultura, racconta il dilemma di ogni forma d’arte che lamenta la caducità, ma poi riesce a superarla soltanto in un materiale che non è fatto di carne e di sangue.

Per molti dei miei libri ho fatto ricerche in archivio e spesso ho trovato quello che non cercavo affatto. Spesso mi sono chiesta: cosa non hanno annotato? Di quale conversazione non saprò mai niente, perché non ci sono appunti al riguardo? Che cos’è accaduto in realtà tra una lettera e l’altra? Mi è capitato, quando ho osservato per molto tempo gli stessi documenti, di riconoscervi talvolta doppie verità, o il tentativo, da parte di chi scriveva, di usare una tattica, ho riconosciuto il suo sforzo nell’applicare il lessico politico del tempo, come richiesto dalle autorità. Ho trovato l’orgoglio in un curriculum, la manipolazione in un resoconto che si dà come imparziale, il ricatto in una lettera, la quotidianità in un appunto e così via. Cercare in archivio è archeologia. Riportare alla luce strato dopo strato ciò che si vuol capire senza sapere quel che ci aspetta. Esporsi all’ignoto. Dare significato con la propria scrittura immaginaria a documenti scritti. In via sperimentale. Risvegliare il sentimento muto insito nei documenti. In via sperimentale. Legarlo alle nostre esperienze, alle fonti vive, ai fatti storici. Farlo nostro. In via sperimentale. Come un archeologo, prima di iniziare a scrivere ho davanti a me un mucchio di macerie, di frammenti, non so immaginarmi il tutto, intuisco un nesso qua e là e cerco il nucleo della storia che voglio raccontare e che neanche io conosco. Dov’è l’essenziale? Cosa rende una storia un organismo vivente? Come tengo insieme il materiale che costituisce il corpo del mio testo? Quando un autore scende nel regno dei morti, solo allora si manifesta con chiarezza la causa prima di tutto lo scrivere, ossia la domanda: se dobbiamo comunque tutti morire, quale vita vale lo sforzo che la vita stessa comporta? O girando la domanda: con la vita che conduciamo acquistiamo potere sulla nostra morte? La morte è forse la risposta alla domanda che non ci siamo neanche mai posti? Oppure domina solo il destino cieco? Come riusciamo a sopportare di perdere, persona dopo persona, chi ci è più caro – e infine anche noi stessi?

Forse avete sentito parlare del romanzo Il ponte di San Luis Rey di Thornton Wilder. Nella mia libreria lo smilzo libretto si trova tra Scott Fitzgerald e Faulkner, con gli americani, ordinati per data di nascita, sempre a portata di mano, e a due palmi di distanza da Dante. Un volume con la copertina rigida, pubblicato da un editore della RDT, che, come la RDT stessa, il Paese in cui sono nata, non esiste più da tempo. Cinque persone precipitano nell’abisso, quando un ponte sospeso nelle vicinanze della capitale peruviana, Lima, si strappa. Thornton Wilder chiede: cosa ci vuole raccontare la morte simultanea e apparentemente accidentale di quelle cinque persone? O meglio: ci sta raccontando qualcosa? La disgrazia è stata un caso – oppure è la conferma che esiste un disegno divino? Thornton Wilder lascia che il suo narratore ricostruisca la vita delle cinque vittime per capire qual è il dettaglio determinante per fornire la prova della Provvidenza. Cosa si può tralasciare – il testo cosa deve contenere, in fondo sono proprio queste le domande che ogni autore si pone frase dopo frase. Che cosa è importante? Cosa ci deve stare? Cosa si può eliminare? Un testo così si costruisce tutto intorno a una verità che di per sé è indicibile. Ciò che è scritto non è fatto di carne e di sangue, ma deve avere un cuore. Le cinque vite raccontate da Wilder nel suo romanzo hanno tutte al centro un amore talmente grande, che alla fine riesce a lasciar andare persino la persona a cui è rivolto. La rinuncia è talmente grande, che comporta la rinuncia dalla vita stessa. Oppure? Magari è proprio questa dolorosa rinuncia comune a tutte e cinque le vittime, che ha dato il segnale alla divina Provvidenza per la caduta verso il fondo? O il significato dell’incidente risiede piuttosto nella creazione di un legame tra coloro a cui era rivolto l’amore dei cinque personaggi principali – in questo caso la storia dopo la storia effettiva, dopo la rottura del ponte, avrebbe causato il destino? Il cuore del libro è racchiuso in queste ultime 15 pagine, che in realtà ne costituiscono l’appendice? O è nel racconto stesso? O da tutt’altra parte? Ma presto moriremo e ogni ricordo di quei cinque lascerà la Terra, e noi stessi saremo amati per qualche tempo ancora e poi dimenticati. Ma l’amore sarà bastato; e tutti gli impulsi dell’amore ritornano all’amore da cui sono venuti. Nemmeno i ricordi sono necessari all’amore [9], scrive Thornton Wilder. L’amore non ha bisogno neppure del ricordo. La luce eterna. Dante sembra rispondere a Wilder dalle profondità del suo passato, quando nell’ultimo canto della sua Commedia Divina scrive: Nel suo profondo vidi che s ́interna,/ legato con amore in un volume,/ ciò che per l ́universo si squaderna;/ sustanze e accidenti, e lor costume,/ quasi confalti insieme, per tal modo/ che ciò ch ́io dico è un semplice lume. (Paradiso, XXXIII /85-90).

Il bello della scrittura è che contiene una domanda al suo inizio e una alla sua fine. E forse questo è anche il bello della verità della letteratura stessa: essa non è un bene, non è qualcosa che si eredita, “così com’è”, ma è piuttosto qualcosa che sta lì ad aspettarci in uno strato talmente profondo, che la lingua può scoprirne l’accesso, le parole indicarne la via, ma la verità stessa dev’essere trovata dal lettore seguendo la propria strada. Ogni libro, se vogliamo, è una capsula del tempo che contiene riflessioni, e più sono le generazioni che guardano a quanto viene tramandato in letteratura, più saranno le nuove riflessioni che nasceranno da un testo. E anche se un libro del genere non venisse letto per molto tempo o se non venisse letto affatto: è importante sapere che un tempo c’è stata una riflessione, che un autore era tanto insoddisfatto del mondo in cui viveva, da iniziare a scrivere, che ha messo in discussione ciò che ai suoi contemporanei appariva ovvio, che lui soltanto si è messo alla ricerca. Nec perit in toto quicquam, mihi credite, mundo [E nulla perisce nell’immenso universo, credete a me [10]], scrive Ovidio nell’ultimo libro delle sue “Metamorfosi”. Sed variat faciemque novat; nascique vocatur/ incipere esse aliud, quam quod fuit ante, morique/ desinere illud idem [ma ogni cosa cambia e assume un aspetto nuovo. E nascere noi chiamiamo cominciare ad essere una cosa che non si era, e morire cessare di essere la suddetta cosa [11]].

Quattromila anni fa in ogni seme egizio risiedeva il signore del regno dei morti, il defunto Osiride, ricomposto e riportato alla vita dalle parole d’amore di Iside. Durante la cosiddetta Festa di Sokar per commemorare il destino del mitico re si “seppellivano” chicchi d’orzo in uno stampo di legno riempito di terra fatto a immagine di Osiride, – i sacerdoti piangevano le spoglie simboliche, si rasavano il capo in segno di lutto, si percuotevano il petto, si graffiavano le membra. Ma otto giorni più tardi, dopo che erano germogliati, i semi venivano piantati nella terra a rappresentare il nuovo inizio, la crescita.


[1] Traduzione di Bettina Ricceri, originale tratto da Jan Assmann, Tod und Jenseits im Alten Ägypten, C.H. Beck Verlag, München, 2001.

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Giorgio Agamben, Gaia e Ctonia, https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-gaia-e-ctonia

[5] Juan Rulfo, Pedro Páramo, traduzione di Paolo Collo, Einaudi, Torino, 2014, p. 142.

[6] Walter Benjamin, Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, Torino,
2011, p. 44.

[7] Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, a cura di Fernanda Pivano, Einaudi, Torino. 1943, p. 3.

[8] Publio Ovidio Nasone. Metamorfosi, Libro IV, versi 657-660, a cura di Piero Bernardini Marzolla, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1979, pp. 164-165.

[9] Thornton Wilder, Il Ponte di San Luis Rey, traduzione di Maurizio Bartocci, Elliot, Roma, 2013, pp.138-139.

[10] Publio Ovidio Nasone. Metamorfosi, Libro XV, verso 254, a cura di Piero Bernardini Marzolla, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1979, pp. 616-617.

[11] Ibidem