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Poesie ed errori

Jennifer Clement

26 Maggio, 2020

È un grande onore per me essere qui oggi a tenere la Lectio Magistralis nel ventesimo anniversario della Fondazione Santa Maddalena.

Sono stata ospite della Fondazione per la prima volta nel 2014, come scrittrice residente, e ho subito amato il luogo creato da Beatrice e così pervaso della presenza di suo marito, Gregor Von Rezzori. Ma l’elemento più straordinario è la visione di Beatrice, una sorta di credo: se tutto il resto viene meno – per colpa della guerra, della perdita dell’amore, della solitudine, della mancanza di protezione – rimane ancora la bellezza: quella del paesaggio, della grande letteratura, dell’arte e dell’amicizia.

I

Ovidio dichiarò che i motivi del suo esilio da Roma furono “carmen et error” (una poesia e un errore). Queste due parole hanno camminato insieme per oltre duemila anni, eppure sembra che non si parlino. Per me sono state come due navi che mi guidavano verso due stelle polari.

Quale fu l’errore di Ovidio? La sua reticenza in proposito è tale che gli studiosi e gli storici non ne sono del tutto sicuri. E che cos’è un errore? È uno sbaglio che si può correggere? È diverso da una fatalità? Fa parte dell’idea di caso o di quella di destino? Si è trattato della conseguenza imprevista di circostanze non volute? Oppure, per usare le parole di Ovidio, di “un impulso inaudito” che “mio malgrado mi trascina; la passione mi consiglia una cosa, la mente un’altra”[1]?

Il mio interesse per le poesie e per gli errori deriva dal Messico, dove sono cresciuta e vivo tuttora. Il Messico mi ha preparata a considerare l’errore una scoperta, fonte di confusione e di chiarezza. L’arte e la storia si riflettevano sulla mia vita quotidiana. I quadretti ex voto nelle chiese, nelle cappelle e nelle case della gente rappresentavano ogni genere di calamità ed eventi sovrannaturali. Nei quadri surrealisti di Remedios Varo, Frida Kahlo, Francisco Toledo e Leonora Carrington vedevo un gallo che fa l’amore con una donna, la luna che viene nutrita, un pavimento di marmo che si trasforma in una persona e una donna che si crea cucendo se stessa. Perfino nel Giorno dei Morti gli scheletri possono essere fecondi.

Anche il mondo precolombiano di bellezza, terrore e contraddizioni era una presenza costante e molto reale. Sapevamo che i gradoni delle piramidi che salivamo erano stati bagnati da fiumi di sangue, sgorgato dai cuori estratti ancora palpitanti dal petto delle vittime sacrificate al Dio del Sole.

Nell’arte e nella storia, ma anche nella vita quotidiana, l’ordine, o il disordine, messicano delle cose significava che potevo assistere alla messa cattolica la mattina e a un sanguinoso combattimento di galli la sera; il circo che si fermava nelle nostre strade ogni settembre mostrava sempre l’attrazione di un ragazzo con due teste, e se toccavi la polvere sulle ali delle farfalle rischiavi di diventare cieco.

In Messico sapevamo che anche gli oggetti inanimati possono commettere errori ed essere puniti. Una delle trentotto grandi campane della Cattedrale Metropolitana di Città del Messico, nota come la “castigata”, uccise un campanaro inesperto che era stato così imprudente da fermarsi sotto quell’enorme mole da due tonnellate. La campana fu punita. La sentenza fu il silenzio. Per sempre.

Ricordo che nel mio quartiere di San Ángel a Città del Messico durante i temporali l’acciottolato delle strade si copriva di piccoli, aggraziati chicchi di grandine, che tingevano tutto di bianco. Io raccoglievo le palline di ghiaccio e me le mettevo in bocca, come se fossero dolcetti. Il giardiniere della zona, Apolinar, sosteneva che la grandine gli rovinasse le piante. In passato era stato un torero. Si arrotolava gli orli dei calzoni consunti e mi mostrava le cicatrici che aveva sulle gambe: rotonde, a forma di corno, bianche e grigie come i gusci delle ostriche. “Queste” diceva “sono le cicatrici di tutti i miei errori”.

Ciò che ho descritto fin qui ha a che fare con l’errore, ma anche con la poesia – la poesia intesa come ricerca della verità e del conforto al cospetto dell’invisibile, e la poesia in quanto espressione di un processo di trasformazione.

Quando ho scoperto Ovidio e il suo esilio, dovuto a una poesia e a un errore, e quando ho letto il suo straordinario poema, Le metamorfosi, in cui afferma che “a narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge l’estro”[2], sapevo già che un albero di alloro era in realtà una dea, e che era possibile trasformare qualcuno in pietra con lo sguardo. Sapevo già che un errore e una poesia potevano mutare una donna in una sirena, un ruscello, un cervo, una roccia, una costellazione, e perfino in una scalinata di pietra.

II

Un anno fa mi trovavo a Capo Sunio, in Grecia, davanti al tempio di Poseidone, che si erge in cima a una scogliera affacciata sul mare. È qui che il leggendario Teseo, conducendo la sua nave verso casa, commise un errore fatale. L’eroe dimenticò di ammainare le vele nere del lutto e issare quelle bianche, per annunciare la sua vittoria contro il Minotauro.

Era una giornata burrascosa, e dalla scogliera guardai in basso, dentro il mare nero, nell’acqua che somigliava a quella dei perigliosi oceani in tempesta di un quadro di William Turner. E, come in un’immagine postuma, vidi la nave sventurata – Plutarco ci dice che si trattava di una galea da trenta remi – e immaginai Egeo, il padre di Teseo, gettarsi da quella grande altezza nel mare, il Mare Egeo, che prende il nome da quel tragico errore, come il titolo di una lezione di storia.

La mente costruisce ponti di pensiero, perciò quella visione mi spinse a ricordare la poesia “Ho bisogno del mare perché m’insegna di Pablo Neruda, in cui il poeta fa una riflessione sul mare come corpo di conoscenze. Ecco la strofa di apertura:

Ho bisogno del mare perché m’insegna:(…)

circolo in qualche modo magnetico

nell’università delle acque..[3]

Il marmo bianco del Tempio di Poseidone in cima alla scogliera si affaccia su quella “università delle acque” ed è coperto da un reticolo di graffiti: non quelli tracciati con le bombolette spray dei giorni nostri, ma incisi nella pietra o intagliati con martelli e scalpelli. Tra le tante date e nomi in diverse lingue, quello del poeta Lord Byron è scolpito sulla colonna quadrata esterna, la seconda da destra, nel terzo blocco verso l’alto. Nel suo poema epico Don Giovanni del 1819, Byron nomina Capo Sunio:

Portatemi sul ciglio del precipite Sunio

fra i marmi del dio

dove nessuno potrà udire diffondersi nell’aria

i miei gemiti

frammisti al murmure delle onde del mare…[4]

Lord Byron visitò la Grecia nel 1809 durante un viaggio nel Mediterraneo, e in seguito vi morì dopo un esilio autoimposto, perché aveva commesso un errore. Non solo si innamorò della sorellastra, Augusta, ma pubblicò anche le poesie che rivelavano quell’amore proibito, dal quale nacque perfino una figlia. In una lettera vergata dopo la nascita della bambina, e che tradisce la paura che il poeta deve aver provato al pensiero di mettere al mondo una figlia dell’incesto, Byron scrisse: “Oh, ma non è una scimmia, e ne valeva la pena”.

Sappiamo che Lord Byron e la sorella erano evitati da chiunque. Nella sua biografia di Augusta Peter Gunns scrisse: “Non appena entrarono nella sala… si accorsero di essere oggetto dell’attenzione di tutti… Gli uomini voltarono loro le spalle e si allontanarono. Lui (Byron) rimase fermo in silenzio in un angolo, a contemplare la disapprovazione sul viso di coloro che solo poco prima lo corteggiavano.” Qualche tempo dopo Byron lasciò l’Inghilterra per non tornarvi mai più.

In “Epistola ad Augusta”, dove di nuovo invoca la musa dell’amore illecito, aberrante, Byron parla del suo errore. Non ritiene che il suo amore sia un errore; l’errore è stato pubblicare le poesie che rivelavano l’amore per la sorella. Il poeta scrive:

In me l’errore

in me la pena.[5]

La mia fascinazione per questa storia mi ha spinto a scrivere a mia volta un lungo poema narrativo su Lord Byron e Augusta, dal titolo A Salamander–Child (Una bambina salamandra), che comincia così:

Con un volto di veli e tramonto,

come sazia di mela proibita,

disprezzata hai vissuto, o Augusta,

perché tuo fratello ha tracciato le linee

delle tue mani e ti ha impresso il suo marchio.

Eri il suo amore, di tutte più cara,

sorella a metà,

metà del suo cuore,

la metà fortunata dell’osso.[6]

I dilemmi dell’errore, della fatalità e del caso sono temi centrali anche nei miei romanzi. In Il fascino del veleno la protagonista si innamora del fratello credendolo suo cugino. La vicenda riecheggia anche la tragedia del mito di fondazione del Messico, in cui il dio Quetzalcoatl, ubriacato dai suoi nemici, giace con la sorella. Quando si sveglia e si rende conto di quello che ha fatto abbandona i popoli messicani e va in esilio. Molti storici ritengono che il grave errore del popolo Mexica sia stato credere che Hernan Cortez, il conquistatore spagnolo del paese, fosse il grande dio Quetzalcoatl che faceva ritorno.

Nel mio romanzo, per poter agire, la protagonista si trasforma indossando gli abiti del suo innamorato – quelli del fratellastro. Questo evento è ispirato al gioco dei travestimenti shakespeariano: Rosalinda nei panni di Ganimede, Porzia in quelli del dottore in legge, Viola in quelli di Cesario e Imogene che si finge un ragazzo, Fedele. Anche le parole di Lady Macbeth “Venite, spiriti addetti ai pensieri di morte, strappatemi questo mio sesso”[7] sono presenti qui, dato che il mio personaggio deve vestirsi da uomo per poter uccidere. Ecco il momento:

Per prima cosa si infilò i pantaloni di lino blu e si strinse la cintura di pelle intorno alla vita. Le cascavano vuoti sui fianchi. Poi si mise la camicia bianca e non si curò di chiudere i bottoni. Infilò i piedi nudi nelle sue scarpe(…) e la forma del suo piede sotto il suo. Camminò dove lui camminava (…) Con addosso i vestiti di santi riuscì a sentire il calore del suo corpo stretto fra le sue braccia (…). Emily aprì un cassetto della cucina. Nel cassetto c’erano: un coltello da carne, un coltello per disossare, un coltello da arrosto, un coltello per scavare, un coltello per affettare, un coltello del pane, un coltello per trinciare, un coltello per aprire le ostriche, un coltello per tagliare. Prese il coltello per affettare e quello per aprire le ostriche. Due coltelli in due mani. Non erano pesanti.[8]

III

Mi trovavo in Grecia durante un viaggio per il PEN International – la più antica e la più grande organizzazione letteraria internazionale. Il PEN nacque dopo la Prima guerra mondiale dalla consapevolezza che gli scrittori stessi avevano contribuito a creare odio e xenofobia, e che una rete globale letteraria avrebbe potuto essere d’aiuto nell’evitare conflitti futuri. Tra tutti i casi che trattiamo, sono quelli dei poeti incarcerati, condannati o costretti all’esilio a colpirmi di più. La poesia è pressoché l’unica cosa al mondo priva di un valore monetario. Non si può vendere una poesia. Nessuno vuole comprarla. Le poesie non si vendono al mercato come le mele e le pesche; non vengono battute all’asta come le sculture e i quadri. Confesso che mi suscita una strana meraviglia pensare che una poesia sia così potente e pericolosa che il poeta può essere incarcerato o condannato a morte per qualche distico rimato, per un pugno di simboli e metafore.

Il primo caso di cui si è occupato il PEN è stato un tentativo fallito di salvare Federico Garcia Lorca, il quale, sulla poesia, dichiarò: “L’artista, e in particolare il poeta, è sempre un anarchico nel senso migliore del termine… (e) deve ascoltare soltanto il richiamo interiore (…) di tre voci potenti: quella della morte, così carica di presentimenti, quella dell’amore e quella dell’arte.”

Ogni volta che rifletto su quanto siano diventate pericolose le poesie, ricordo le parole del poeta e romanziere inglese Thomas Hardy: “Se Galileo avesse detto in versi che la Terra si muove, forse l’Inquisizione l’avrebbe lasciato in pace.”

Ai giorni nostri, se Galileo avesse vergato le proprie scoperte in strofe di versi liberi in un paese come l’Arabia Saudita, per esempio, forse in questo momento guarderebbe il cielo – il suo cielo rotondo, a forma di telescopio – dalla cella di una prigione. E dato che siamo a Firenze, circondati da terreni coperti di vigne, è opportuno ricordare la sua descrizione del vino, che potrebbe benissimo essere considerata una breve poesia: “Il vino è la luce del sole, tenuta insieme dall’acqua”.

In Arabia Saudita un poeta rischia di essere condannato alla pena capitale per le sue opere. Il poeta palestinese Ashraf Fayadh ha scritto “La Terra è l’inferno preparato per i profughi” ed è stato condannato alla decapitazione per aver propagandato l’ateismo nei suoi componimenti, che sono stati utilizzati come prove durante il processo. (Grazie alle proteste dell’opinione pubblica la sentenza è stata ridotta a otto anni di prigione e ottocento frustate.)

Ilhan Sami Comak è un poeta curdo che si trova in carcere in Turchia da ventisei anni, e ne deve scontare altri cinque per completare la sua draconiana sentenza. È stato arrestato quando era uno studente universitario di soli ventun anni.

Uno dei casi del PEN che non potrò mai dimenticare è quello dello scrittore e attivista nigeriano Ken Saro-Wiwa, torturato e giustiziato il 10 novembre 1995. Saro-Wiwa era uno scrittore pluripremiato che difendeva l’etnia Ogoni, le cui terre venivano sfruttate e inquinate dalla Shell con la complicità del governo.

Oggi nella lista del PEN abbiamo quarantasette poeti da difendere – angariati, minacciati di morte, arrestati, imprigionati e torturati. Ogni giorno i membri del PEN pensano a loro e alle loro sofferenze. Sappiamo che per i poeti in cella il sole è freddo, e ci sono mesi tra i mesi, giorni tra i giorni e ore tra le ore. Anche in quei mesi, giorni e ore di galera, che non sono segnati sui calendari, noi lavoriamo per la loro libertà di espressione e per la loro scarcerazione. A proposito della continua vigilanza del PEN, Nedim Türfent, che si trova in carcere in Turchia, ha scritto: “… il PEN ci è vicino, pronto a tenere compagnia agli uccelli in gabbia”.

Di questi tempi una poesia può perfino causare una grave crisi internazionale. All’inizio del 2016 il comico Jan Böhmermann ha scritto una poesia satirica sul presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Il vice primo ministro della Turchia l’ha definita un “grave crimine contro l’umanità” e lo stesso Erdoğan ha chiesto al governo tedesco di aprire un’inchiesta contro l’autore.

Un altro caso recente è quello della principessa di Giordania Haya bint al-Husayn, che ha lasciato il marito, lo sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, vicepresidente e primo ministro degli Emirati Arabi Uniti ed emiro di Dubai, ed è fuggita dal paese con i loro due bambini, chiedendo asilo politico in Gran Bretagna.

Il marito della principessa non ha minacciato di rapirla. Né di avvelenarla, o di frustarla, o di rinchiuderla nelle segrete del palazzo, o di lasciarla morire di fame o di lapidarla a morte. Non le ha detto attenta, prima o poi cadrai da cavallo, e neppure attenta, il tuo aereo precipiterà per cause misteriose. No. Ha scritto una poesia per lei, dal titolo “Tu vivi, tu muori” e l’ha pubblicata sulla sua pagina ufficiale di Instagram. Si può solo immaginare il terrore che deve provare la principessa Haya. Lei sa, e anche noi sappiamo, che quella poesia è una sentenza di morte; un ordine che qualcuno dovrà eseguire.

Due anni fa ho fatto visita a Dareen Tatour, la poeta e fotografa palestinese che in Israele ha scontato alcuni mesi di carcere ed è stata poi messa agli arresti domiciliari per una poesia. Mi ha regalato una tela di lino bianco su cui aveva ricamato in rosso le parole: “La poesia non è un crimine”.

IV

In Middlemarch George Eliot ha scritto: “… l’alito stesso della scienza è una lotta contro l’errore[9]…”. Com’è inevitabile, queste parole mi hanno spinto a pensare agli errori della scienza, che spesso assumono proporzioni mitiche. Una storia recente è quella del Mars Climate Orbiter, costruito per studiare il clima, l’atmosfera e i cambiamenti sulla superficie del pianeta Marte. Per effettuare i calcoli il team di navigazione utilizzava il sistema internazionale, basato su metri e millimetri, mentre gli scienziati che avevano progettato e costruito la sonda avevano utilizzato il sistema imperiale, basato su pollici, piedi e libbre. A causa di queste discrepanze l’Orbiter, che valeva centoventicinque milioni di dollari, esplose e andò in pezzi dopo dieci mesi di viaggio verso il pianeta rosso. Il pensiero della confusione tra centimetri e pollici – come giocare a scacchi contro qualcuno che gioca a dama – è mitico, degno di essere descritto come la battaglia di un poema epico.

Uno degli errori di calcolo più famosi fu quello di Cristoforo Colombo, che utilizzò il miglio romano invece del miglio nautico per misurare la circonferenza della Terra. Ecco perché, quando approdò alle Bahamas nel 1492, era convinto di trovarsi in Asia.

L’errore nella perizia calligrafica – i trattini delle t, la pressione e l’inclinazione dei segni, la forma e le dimensioni delle lettere e delle linee di inchiostro – portò alla condanna di Alfred Dreyfus, un uomo innocente. L’affare Dreyfus divise e sconvolse il popolo francese e quello di tutto il mondo, e provocò profonde conseguenze.

Il chimico francese Louis Pasteur scrisse che “Il caso aiuta solo le menti già pronte[10]”. Si riferiva a un errore nella tempistica: aveva lasciato a se stesse alcune colture di colera mentre era in vacanza, ed era rimasto lontano più a lungo del previsto. Quell’errore divenne la base della teoria dei germi come causa delle malattie e della microbiologia medica, e inoltre facilitò il suo straordinario lavoro sui vaccini. Molto è stato scritto sulla funzione euristica dell’“errore” nell’opera di Pasteur.

Un capitolo del mio romanzo breve Stormy People  parla proprio di Louis Pasteur. La mia raccolta Newton’s Sailor raggruppa versi dedicati a scienziati e scoperte scientifiche, e in particolare una serie di poesie scritte in prima persona con la voce della chimica Marie Curie. Curie scrive alcune lettere al marito morto, che è stato non solo il suo grande amore, ma anche un importantissimo collaboratore. In una di esse esprime la profonda preoccupazione che la morte di Pierre possa esercitare un effetto catastrofico sugli esperimenti. Ecco gli ultimi due versi:

Non ho inserito la tua morte nelle equazioni

Per evitare che perdessero coraggio.[11]

Il pianista Vladimir Horowitz ha dichiarato di utilizzare l’errore come una tecnica vera e propria: “Devo ammettere che corro rischi tremendi” ha detto. “Dato che il mio modo di suonare è molto limpido, quando commetto un errore si sente. Se volete che io suoni solo le note, senza nessuna dinamica specifica, allora non farò mai nessun errore. Non bisogna mai aver paura di osare.”

Perfino nell’avventuroso mondo dello spionaggio gli errori sembrano opere letterarie. C’è l’episodio di una spia dell’Europa orientale che si era infiltrata negli Stati Uniti e veniva tenuta sotto sorveglianza dall’FBI. L’uomo fu scoperto e arrestato perché lo avevano visto comprare dei fiori in un negozio. Portava il mazzo al contrario, con gli steli in alto e le corolle rivolte verso il terreno.

Esiste un errore dalle conseguenze spirituali che ha finito per comparire in uno dei più importanti poemi del ventesimo secolo e coinvolge il grande esploratore irlandese Sir Ernest Shackleton, famoso per aver detto: “Quando le cose sono facili, le odio”[12].

Durante la sua Spedizione imperiale transantartica, intrapresa tra il 1914 e il 1917 a bordo della nave Endurance, Shackleton commise l’errore fatale di non tener conto dei consigli dei marinai che vivevano nella base baleniera dell’Isola della Georgia del Sud. Quegli esperti uomini di mare avevano esortato l’esploratore a rimandare il viaggio perché quell’anno si era formato uno strato di ghiaccio marino più spesso del solito. Non si può raccontare per iscritto quell’episodio senza nominare i pinguini che comparvero all’improvviso quando la nave di Shackleton andò in pezzi, fracassata dai ghiacci, e si inabissò. L’esploratore scrisse: “Uno strano evento fu l’improvvisa apparizione di otto pinguini imperatore, che sbucarono da una fenditura a poco meno di un centinaio di metri di distanza proprio nel momento in cui la pressione del ghiaccio sulla nave giunse al culmine. Avanzarono per un breve tratto verso di noi, si fermarono, e dopo qualche normale verso di richiamo emisero una serie di stridii stranissimi, che risuonarono come un lamento funebre per la nave. Nessuno di noi aveva mai sentito in precedenza i pinguini imperatore emettere qualcosa di diverso da semplici grida e richiami.”

Dopo la perdita della nave ebbe inizio una storia di sopravvivenza, resistenza umana ed eroismo. Shackleton descrive le terribili, ultime trentasei ore di marcia nella Georgia del Sud, compiuta insieme a due dei suoi uomini, attraversando oltre cinquanta chilometri di ghiacciai e montagne, per raggiungere una base baleniera e ricevere finalmente soccorso. Quella marcia viene a tutt’oggi considerata una delle imprese più straordinarie compiute dall’umanità. In quelle ore di gelo, fame e privazioni, i piedi calzati in scarponi con chiodi conficcati nelle suole per fare presa, i tre uomini avvertirono la presenza, perfino il rumore dei passi sul ghiaccio, di un altro uomo che camminava al loro fianco. Durante la marcia nessuno dei tre parlò al compagni di quella presenza sovrannaturale, nel timore di trovarsi sull’orlo della follia.

Più tardi, Shackleton scrisse: “(…) durante la lunga e tormentosa marcia di trentasei ore tra le montagne e i ghiacciai senza nome della Georgia del Sud, mi parve spesso che fossimo in quattro, e non in tre. Sul momento non dissi nulla ai miei compagni, ma in seguito Worsley mi confidò: ‘Capo, ho avuto una strana sensazione durante la marcia, come se ci fosse un’altra persona con noi.’ E anche Crean confessò di essersi fatto la stessa idea. Quando si cerca di descrivere entità intangibili si sperimenta la ‘povertà delle umane parole’, la ‘ruvidezza della lingua mortale’[13], ma un resoconto di questi viaggi resterebbe incompleto se non menzionassi un argomento così caro ai nostri cuori.”

In La terra desolata Thomas S. Eliot racconta questa esperienza. Ecco i versi:

Chi è il terzo che cammina sempre al tuo fianco?

Quando conto, ci siamo solo io e te insieme

ma se guardo innanzi, lungo la strada bianca

c’è sempre un altro che cammina al tuo fianco

scivola avvolto in un manto bruno

incappucciato. Non so se uomo o donna.

Ma chi è quello che ti sta sull’altro fianco?[14]

Sir Ernest Shackleton amava in profondità la poesia. La sua grande amica, la signora Hope Guthrie, scrisse: “La poesia era l’altro suo mondo, e la esplorò con lo stesso entusiasmo con cui percorse i grandi spazi antartici.” I diari, le lettere e i discorsi dell’esploratore sono pieni di versi, e Shackleton li utilizzava per motivare i suoi uomini, che spesso si trovavano al limite delle forze fisiche e mentali. Scrisse che per lui erano “una medicina mentale di vitale importanza”.

V

Al giorno d’oggi è difficile, se non impossibile, pensare agli errori senza ricordare Freud, che ha rintracciato nei nostri miti e nelle storie che raccontiamo l’origine dei sintomi che ci accomunano. W.H. Auden ha scritto una poesia dal titolo “In memoria di Sigmund Freud” che contiene questi versi:

Ma soprattutto ci farebbe ricordare

d’essere entusiasti della notte,

           non solo per il senso di stupore

           che essa sola sa offrire bensì anche

Perché a lei occorre il nostro amore[15]

Nella storia dei tentativi umani per comprendere il funzionamento della nostra mente, sebbene altri prima di lui avessero delineato alcune idee sull’inconscio, è stato Freud il primo a interpretare gli errori involontari come una fonte di verità, di una verità ignota. Nella sua Autobiografia scrisse: “Così come si serve dell’interpretazione dei sogni, l’analisi si serve anche dello studio dei frequentissimi piccoli atti mancati e sintomatici dell’uomo (…) questi fenomeni (…) hanno un ben preciso significato e possono essere interpretati, e (…), in definitiva, derivano da impulsi e intenti trattenuti o rimossi.”[16]

Capisco bene lo stupore che esprime Auden quando evoca la “notte dell’inconscio” come luogo di verità. E sia alla notte sia al giorno occorre il nostro amore.

Abbiamo errori nella storia della letteratura, e abbiamo anche la storia degli errori, che risale ai miti più antichi: storie che derivano da altre storie, la leggenda riscritta o dimenticata, la lezione imparata, disimparata e poi imparata di nuovo. In questo DNA letterario gli esempi moderni comprendono Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, che, a quanto ha dichiarato lo stesso autore, è figlio del Pedro Páramo di Juan Rulfo, il quale a sua volta è stato influenzato da Cime tempestose di Emily Brontë.

Viaggiare sia nella storia sia nell’errore può essere un labirinto. L’errore di re Mida, per esempio, viene riportato in versioni diverse e contraddittorie da Pausania, Sofocle, Erodoto, lo storico greco Arriano di Nicomedia e Ovidio nelle sue Metamorfosi. Su di lui Mary Shelley e Percy Bysshe Shelley scrissero insieme un’opera teatrale in blank verse nel 1820, mentre vivevano in Italia. Di recente Carol Ann Duffy ha preso ispirazione dal re incapace di riconoscere la vera felicità e dalla tragedia dell’avarizia per una poesia dal titolo “La signora Mida”. Eccone una strofa:

Letti separati. Misi anche una sedia contro la porta,

ero quasi impietrita. Lui era giù, a trasformare la camera degli ospiti

nella tomba di Tutankhamun. Sì, perché eravamo appassionati allora,

in quei giorni felici; ci spogliavamo svelti, come si scarta

un regalo, o il fast food. Ma ora temevo il suo dolce abbraccio,

il bacio che delle mie labbra avrebbe fatto un’opera d’arte.[17]

Una delle misteriose gratificazioni della letteratura è il modo in cui la nostra valutazione di un errore può cambiare. Ricordo che quando lessi per la prima volta Madame Bovary ero insofferente nei riguardi della protagonista e moralista di fronte alla sua superficialità e ai suoi errori. Decenni più tardi, quando lo rilessi per la terza volta, ero piena di amore e compassione per lei. Ero in grado di comprendere il suo terrificante interrogativo: “È tutto qui?” perché capivo che l’amore per i libri, così entusiasmanti, le faceva apparire monotona la vita, e veniva perfino considerato l’origine del suo male. Ecco un brano in cui Flaubert esprime il concetto:

E così dunque venne deciso che si sarebbe impedito a Emma di leggere romanzi. Certo l’impresa non pareva facile. A ogni modo la vecchia se ne assunse ogni responsabilità: passando da Rouen si sarebbe presentata al libraio comunicandogli che Emma rinunciava al suo abbonamento. Non avrebbero avuto il diritto di ricorrere alla polizia nel caso che il libraio avesse nonostante tutto persistito nel suo mestiere di avvelenatore?[18]

E in certe situazioni non cambia mai niente. Ogni volta che Romeo commette l’errore di bere il veleno, lo beviamo anche noi. Nell’Ulisse di James Joyce, Molly Bloom commette l’errore di lasciare la lettera dell’amante visibile agli occhi del marito: “La vide con la coda dell’occhio sbirciare la lettera e infilarla sotto il guanciale”[19]. Per l’intero romanzo tutti noi camminiamo insieme a Leopold Bloom, avanti e indietro, dentro e fuori dalla sua mente, attraverso le strade di Dublino e quell’intera vita che trascorre in ventiquattro ore con la consapevolezza che la moglie incontrerà l’amante e andrà a letto con lui. E anche noi, come Bloom, parola dopo parola, pagina dopo pagina, ci chiediamo: “Possiamo ancora amarla?”

E ogni volta che pensiamo a Teseo non possiamo fare a meno di avvertire nelle mani il disperato desiderio di issare le vele bianche.

VI

Un modo di vivere in cui la letteratura e la vita abitano insieme e sono altrettanto importanti mi deriva da mio padre. Era un appassionato dell’opera di Shakespeare e conosceva a memoria molti dei monologhi più famosi e di quelli meno famosi. Era anche bravo a recitare poesie e, dotato di una prodigiosa capacità di ricordare, si sforzava di memorizzarle per farle diventare parte di sé. Era un ingegnere chimico, un eccellente matematico, e inventò macchinari registrati presso lo United States Patent and Trademark Office. Conosceva bene le parole, ed era convinto che la poesia fosse il luogo dov’è possibile trovare una forma di salvezza. Avrebbe avvertito un’affinità con i versi di “Poesia e religione”, un componimento del defunto poeta australiano Les Murray, che recita:

Le religioni sono poemi. Concertano

la nostra mente, onirica e diurna, le nostre

emozioni, istinti, respiro e identità

nell’unico modo totale di pensare: la poesia.

Niente è detto finché non è tutto sognato in parole. (…)[20]

Mio padre era di New York e nei primi anni sessanta trasferì la famiglia in Messico, dove morì in giovane età. A questo punto posso affermare che non lo conoscevo molto bene, o forse la verità più grande è che lui non ha mai conosciuto me; però conosco bene i romanzi, le opere teatrali e le poesie che sono suoi, e sono miei, e adesso appartengono anche ai miei figli, come se fossero storie della nostra famiglia.

A quei tempi, in Messico, quando ero bambina, ci facevamo confezionare i vestiti da una sarta che veniva in casa. Il Paese era ancora isolato dal resto del mondo – non esisteva l’Accordo Nordamericano per il Libero Scambio – e comprare abiti nei negozi non era facile come oggi. A mia madre piaceva bendare gli occhi delle figlie durante le prove, in modo che i vestiti, una volta pronti, fossero una sorpresa. Dato che di solito questo succedeva la sera, quando noi eravamo tornate da scuola e mio padre dal lavoro, lui ci teneva compagnia. Nel buio, dietro la benda legata attorno alla testa e che mi copriva gli occhi, avvertivo la diversa consistenza delle stoffe sulla pelle, la puntura di uno spillo sul ginocchio mentre la sarta mi aggiustava l’orlo, o il contatto tiepido delle dita che scendevano sulla schiena per tutta la lunghezza dell’abito e segnavano i punti dove attaccare i bottoni. In molte occasioni mio padre restava seduto in silenzio, oppure parlava con la sarta, ma spesso approfittava di quei momenti, in cui tutte e due le figlie erano ferme e cieche, per recitare poesie.

Ciò che ricordo meglio di lui, a parte la sua capacità di recitare Shakespeare a memoria, è l’ossessione per La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj. Mio padre aveva l’abitudine di interpretare le ultime pagine, con Ivan Il’ič sul letto di morte – l’interrogatorio della vita vissuta – come un modo per chiedersi: “Attento, sta’ in guardia: cosa domanderai a te stesso in quell’ultimo giorno fatale?” Oppure ripeteva la frase indimenticabile del racconto che dice: “La storia della vita precedente di Ivan Il’ič era la più semplice e comune e la più orribile.[21]” In altre parole, niente errori. Quella frase è stata il fulcro filosofico della mia infanzia: mi ha sfidata a saltare, a scappare di casa, a essere una scrittrice e a dire di sì, talvolta con incoscienza, a tutto.

E qui, nel ricordare mio padre, ricordo anche le risse che scatenava sempre, come se perfino una rissa avesse il potere di tenerti lontano dalla vita semplice, comune e orribile. Prendeva proprio la gente a pugni in faccia, si alzava dal tavolo così in fretta che la sedia volava via e cadeva sul pavimento. C’era sempre un po’ di sangue che gli usciva dal labbro o dal naso. Lo ripuliva con il suo impeccabile fazzoletto di lino bianco, che, mi viene in mente all’improvviso, con ogni probabilità portava con sé proprio per quelle zuffe veloci come un fulmine. Picchiò il marito della nostra istitutrice francese, un medico illustre, nonché un donnaiolo molto geloso della moglie. Una volta andammo a pescare su un lago (credo di aver avuto circa undici anni, mentre mia sorella ne aveva nove) e mio padre ci tenne ore e ore ad aspettare sul molo per poter picchiare l’uomo che, sfrecciandoci accanto da insolente con un motoscafo, aveva ridotto le nostre lenze a brandelli che galleggiavano sulla superficie dell’acqua. Quel sabato sera, mentre calavano il buio e il freddo, aspettammo la rissa. Quando il motoscafo approdò mio padre era pronto, e le sue due figlie andarono ad accucciarsi in fondo al molo, vicino alla riva, consapevoli che la sua rabbia riempiva il mondo intero.

Le poesie che ho scritto quando avevo sette, otto, nove e dieci anni – ho cominciato a scrivere prestissimo – mio padre le faceva battere a macchina dalla sua segretaria e le riuniva in un piccolo raccoglitore a tre anelli. Ricordo perfino di aver scritto il mio nome in un libro scolastico di calligrafia e di aver pensato “Come fa a essere il mio nome? Come fa a essere me?”. E quando lo chiesi a mio padre lui rispose: “Non capirai mai il tuo nome”.

Ovidio disse di essere stato esiliato da Roma per una poesia e un errore, e mio padre avrebbe considerato quelle due parole come un modo per vivere sia rivolti alla passione che dentro la passione. Sapeva che la concezione di Tolstoj della vita orribile, della vita comune, era assente dalla poesia e perciò mi diede poesie, insieme alla speranza che avrei commesso errori. Mio padre era un uomo che si lasciava coinvolgere in risse da ubriachi, ma una volta, negli anni quaranta del secolo scorso, ballò il valzer con suo cugino alle tre della mattina proprio al centro della Quinta Avenue. Ballarono per tutto il tragitto dall’appartamento uptown dei miei nonni fino al Washington Square Park – un valzer che durò settantacinque isolati.

VII

Nel dicembre 2017 il consiglio comunale di Roma ha deliberato di “riparare al grave torto” subito da Ovidio con l’esilio a vita dalla capitale. Il vicesindaco di Roma, Luca Bergamo, ha dichiarato in aula: “Quello di oggi è un simbolo importante perché parla del diritto degli artisti di esprimersi liberamente in una società in cui la libertà di espressione artistica è sempre più compressa.” E così, più di duemila anni dopo che Augusto aveva esiliato il poeta, Ovidio è stato graziato e ha ottenuto il permesso di tornare nella sua terra natale.

In onore della sua libertà, ho scritto una poesia. Eccone un frammento:

Stanotte

quando Ovidio è graziato

dal Consiglio comunale e può tornare

dal suo esilio qui a Roma

C’è metamorfosi (…)

E ovunque intorno è amore

inespresso, come se fiatare

se dargli suono di parole

foriero fosse di poesie

ed errori.

Stanotte

Le mie lunghe marce mi hanno fatto tacere

e io sono tutte le statue.

Sotto le stelle dell’inverno

Venere senza braccia sogna

un abbraccio.[22]

Per le sue poesie e i suoi errori oggi Ovidio sarebbe stato uno dei casi patrocinati dal PEN. In qualità di presidente del PEN International, avrei organizzato campagne di sensibilizzazione sulle sue opinioni e la sua opera e forse avrei presentato il suo caso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, presso la quale in questo momento abbiamo già diversi casi pendenti. Le succursali del PEN avrebbero organizzato veglie per Ovidio davanti alle ambasciate italiane di tutto il mondo.

Come scrittrice, sento che la vita e le opere di Ovidio sono un modo di essere. Nell’errore posso smarrirmi, e vagare correndo rischi verso la possibilità della scoperta. Nella poesia trovo metafore, contraddizioni e mondi che dovrebbero esistere – quei luoghi in cui i poeti e le campane delle cattedrali possono essere perdonati.


[1] Publio Ovidio Nasone. Metamorfosi, Libro VII, versi 19–21, traduzione di Mario Ramous, Garzanti,. Milano, prima edizione nei Grandi Libri 1995, prima edizione digitale 2017.

[2] Ibidem, Libro I, verso 1

[3] Pablo Neruda, Memoriale di Isla Negra, traduzione di Giuseppe Bellini, Nuova Accademia, Milano, 1965.

[4] George Gordon Byron, Don Giovanni, traduzione di Simone Saglia, Zanetti Editore, Brescia, 1987, p. 88.

[5] George Gordon Byron, Epistola ad Augusta, in Opere complete di Lord Giorgio Byron, traduzione di Carlo Rusconi, volume quinto, Unione Tipografico Editrice Torino, 1859, p. 64.

[6] Traduzione di Silvia Castoldi

[7] Macbeth, Atto I, Scena V. Prefazione, traduzione e note di Nemi D’Agostino, in William Shakespeare, Opere complete, Garzanti, Milano, 1989, edizione digitale 2016.

[8] Jennifer Clement, Il fascino del veleno, traduzione di Ilaria Beltramme, Nerton Compton, Roma, 2009, p. 184-85.

[9] George Eliot. Middlemarch, traduzione di Mario Manzari, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2008, prima edizione digitale 2010.

[10] Citato in Sam Kean, Il cucchiaino scomparso, traduzione di Luigi Civalleri, Adeplhi, Milano, 2012, p. 184.

[11] Traduzione di Silvia Castoldi

[12] Tutte le traduzioni dei brani di Sir Ernest Shackleton sono di Silvia Castoldi

[13] “Oh povertà delle umane parole! ruvidezza della lingua mortale!” John Keats, Endimione, a cura di Carolina Fucci, Rusconi, Santarcangelo di Romagna, 2017.

[14] Thomas S. Eliot, La terra desolata, traduzione di Angelo Tonelli, Milano, Edizione digitale Zoom Feltrinelli.

[15] Wystan Hugh Auden, “In memoria di Sigmund Freud”, da Poesie d’occasione, in Un altro tempo, a cura di Nicola Gardini, Adelphi, Milano, 1997, p. 198.

[16] Sigmund Freud, Autobiografia, in Opere vol. 10 1917–1923: Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti, a cura di Cesare L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1978, prima edizione digitale 2013.

[17] Carol Ann Duffy, “La signora Mida”, in La moglie del mondo, a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, Le lettere, Firenze, 2002.

[18] Gustave Flaubert, Madame Bovary, traduzione di Oreste del Buono, Garzanti, Milano, 1965, pag. 114.

[19] James Joyce, Ulisse, traduzione di Giulio de Angelis, Mondadori,  Milano, 1960, p. 59.

[20] Les Murray, “Poesia e religione”, in Un arcobaleno perfettamente normale, a cura di Gaetano Prampolini, Adelphi, Milano, 2004, p. 235.

[21] Lev Nikolaevič Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, traduzione di Paolo Nori, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, Prima edizione nella collana “Universale Economica I Classici” gennaio 2014, p. 32.

[22] Traduzione di Silvia Castoldi