L’inesauribile dono della letteratura, o le Sette superforze della narrazione
Georgi Gospodinov
10 giugno 2025
Cari amici che credete nella letteratura o perlomeno nella narrazione di storie, sono onorato ed emozionato di essere tra di voi e di leggere la Lectio Magistralis di quest’anno.
Emozionato perché nel 2014, in un mondo diverso, il mondo di ieri, come direbbe Stefan Zweig, si svolse qui la mia prima partecipazione come finalista al premio Gregor Von Rezzori, così che vissi la mia prima nomina e la mia prima sconfitta. Le vissi in modo leggero e allegro, perché qui non ci sono sconfitti e perché ero circondato da persone, con le quali condividevamo una passione comune e un comune stato invisibile, quello della letteratura.
Chiunque sia entrato nel museo Metropolitan di New York ha probabilmente osservato quei fiori freschi esposti nell’atrio, che vengono regolarmente rinnovati. Una scritta indica che sono un dono inesauribile, continuing gift, di una donatrice. Sull’inesauribile dono della letteratura parlerò anche delle sue superforze (nel titolo ho messo arbitrariamente il numero 7, perché mi piace e suona bene).
La lettera con la quale Beatrice mi ha invitato alla Lectio di quest’anno cominciava così: Surprisingly I’ still here… (Sorprendentemente sono ancora qui.) Solo lei lo può dire a quel modo. Da questo inizio voglio cominciare anch’io.
Sorprendentemente noi tutti siamo ancora qui, in questo mondo scombussolato. E non solo siamo qui, ma ci riuniamo per un festival consacrato alla letteratura. E non solo siamo qui, ma Beatrice apre una Biblioteca (la scrivo con la maiuscola) in piena natura. Costruita in un posto bello e magico, come scrive, che desiderava fin da quando vennero ad abitare qui con Griša.
Costruire una biblioteca in un mondo che si affretta ciecamente verso la rovina e la sua autodistruzione, è un gesto particolare e un dono, coraggioso e incoraggiante, particolarmente oggi e ora. La biblioteca è un rifugio, un cronorifugio, che accoglie tutti i tempi. Non sono sicuro se ci rendiamo conto che, se permettiamo la distruzione del mondo oggi, abbiamo permesso l’annichilimento di tutti i tempi e le epoche precedenti. In questo senso la nostra responsabilità non riguarda solo il momento attuale, è una responsabilità storica, che si espande all’indietro nel tempo e nella storia. Dopo ogni catastrofe umana, che abbiamo permesso, possiamo ascoltare le grida dei nostri predecessori, filosofi, poeti, narratori di storie.
Mentre scrivevo il mio romanzo “Cronorifugio”, sono stato per un anno nella biblioteca di New York (New York Public Library). E sempre, quando ero preoccupato e il mondo era sull’orlo della catastrofe (anche allora c’erano momenti del genere), andavo nella grande sala di lettura Rose Main Reading Room, sotto il cielo dipinto nello stile del Veronese e guardavo i libri ordinari su infiniti scaffali. Mi ci avvicinavo, li toccavo con la mano, qualche volta li aprivo o leggevo lentamente i loro titoli. E questo funzionava, ti consolava ed era il mantra migliore per salvarsi. Non aveva significato che libri fossero, tutto faceva parte di un mondo che è sopravvissuto. Titoli dei dizionari, di enciclopedie sulla Prima e sulla Seconda guerra mondiale – 24 tomi rilegati in rosso, enciclopedie di botanica, dizionari di anatomia…
Guardavo per convincermi che il mondo è intero e rilegato. E prima o poi tutte le catastrofi si trasformano in libri. Proprio secondo quella frase di Mallarmé, amata da Borges, che dice che, prima o poi, tutto si trasforma in libri. In che c’è una certa consolazione. Nulla ci tranquillizza così, come tomi uguali, ordinati, di enciclopedie di diversi continenti, di colore rosso ciliegia, marrone e nero.
Mi permetto di citare questo piccolo elenco, rosario, amuleto, che mi sono trascritto allora girellando per gli scaffali di quella biblioteca, nella ricerca di conforto in quei tempi angoscianti. Questo mantra di titoli può essere utilizzato anche oggi contro le forze del male. Può inoltre aiutare qualcun altro, oltre che me.
Enciclopedia general ilustrada del Pais Vasco
Enciclopedia de Mexico
Nueva enciclopedia de Puerto Rico
Diccionario biografico de Venezuela
Encyclopedia Britannica
The New York Public Library, Oriental Collection
Nomenclator Zoologicus
Il grande libro della cucina italiana
The Cuisine of Hungary
Subject Index of Books Published Before 1880
The Mother of All Booklists
Anonymous and Pseudonymos English Literature
Dicionario biblografico brazileiro
Short-title Catalogue of Books printed in England, Scotland…1475-1740
Utilizzate questo mantra in casi urgenti e in tempi malvagi. Vi garantisco che aiuta.
Questa è la grande consolazione della letteratura, il primo degli inesauribili doni della letteratura. L’ordine è arbitrario, ma mi piace cominciare proprio con la consolazione.
Penso che in un mondo sconsolato come quello di oggi la letteratura tornerà sempre di più a questo suo ruolo un po’ dimenticato. Oltre duemila anni fa la “Consolazione” era un genere molto diffuso nella letteratura. Seneca scrive la sua celebre “Consolazione per mia madre Elvia” che, letta oggi, risuonerà precisamente come le nostre rimandate consolazione nei confronti delle nostre madri. (La loro tristezza non è cambiata molto nel corso di venti secoli.)
“Spesso, madre mia beatissima, ho provato un forte desiderio di consolarti, spesso mi sono fermato… Mi sembrava che, anche se non riuscissi ad arrestare le tue lacrime, ma se te le asciugassi, si sarebbero alleviate anche le mie pene…” Così comincia questo testo molto intimo di Seneca. Se asciugo le tue lacrime. “si allevieranno anche le mie pene”. Non riposa qui un possibile meccanismo di ogni consolazione? Non puoi essere pienamente felice in un mondo dove, intorno a te, è pieno di persone che soffrono.
Ma torniamo a Seneca. La strategia della consolazione, che viene scelta nel seguito del suo testo, sembra ugualmente inaspettata e al di fuori della logica. “Metterò a nudo di nuovo tutte le ferite dell’anima”, scrive Seneca e comincia metodicamente a ricordare le sofferenze passate, le infelicità e le perdite sofferte dalla madre. Così, in maniera complessa, ci consola la letteratura. Non quando sottace, ma quando ci ricorda le nostre proprie tristezze sottaciute, quando ci dà una lingua per esse, quando ci racconta di tristezze altrui e così finché “l’anima si vergogna” di soffrire, come scrive Seneca.
Ringraziamo Seneca e andiamo avanti,
La letteratura è consolazione, ma anche incoraggiamento di continuare a vivere. Consideriamo questo incoraggiamento come un dono seguente o una superforza. Mentre scriveva il mio libro “Il giardiniere e la morte”, venni a sapere di un’antica tradizione slava dei Balcani, da dove provengo, Quando il padrone di casa muore, i suoi congiunti devono comunicare la notizia agli animali domestici e al giardino. Da qualche parte sussurrano all’orecchio del bue e lui capisce tutto. Che bella lingua, immaginatela soltanto. Qualcuno va la mattina nella stalla, la mattina è gelida, si avvicina al caldo orecchio del bue e soltanto gli sussurra dentro. Trasmette la notizia attraverso il suo respiro. Il bue deve sapere che il suo padrone è morto, ma che la vita continua. Poi qualcuno va dagli alveari e comunica a voce: il vostro padrone è morto, ma voi che siate vivi e vegeti, continuate a raccogliere miele. Questo si comunica anche ai ciliegi nel cortile, che diano frutto anche in questa primavera e ai fiori, che sappiano che la vita continua e che non smettano di fiorire a causa della tristezza. ,
Qualcosa di simile fa la letteratura. Ci sussurra all’orecchio e ci comunica la triste notizia, non per ucciderci, ma per dirci che il mondo è mortale, il mondo è in crisi, in un infarto preapocalittico, ma voi non perdetevi d’animo, ma continuate a darvi da fare per leggere e per scrivere, a seminare e a coltivare il vostro orto.
E se ci chiedono: perché continuate a scrivere libri e a costruire biblioteche, dal momento che il mondo va evidentemente verso la sua fine, dominato da idioti, ma noi possiamo rispondere: ma voi perché non costruite biblioteche vedendo come il mondo va verso la sua fine, spinto da idioti?
Nei libri c’è consolazione e incoraggiamento. Come anche nello stesso scrivere. Per quanto siamo disperati e i motivi della disperazione non era stati da tempo così forti, se scriviamo vuol dire che abbiamo speranza nel domani. Per un possibile domani in cui la poesia sarà finita, il romanzo sarà scritto e qualcuno lo prenderà in mano, lo aprirà e comincerà a leggere per risvegliare coi propri occhi cosa c’è scritto. In altre parole, il mondo sarà presente, sarà ancora al suo posto. Scrivo perché credo che il futuro sia possibile e che una persona potrà sedersi da sola un pomeriggio nella sua stanza a leggere. Una volta, in un pomeriggio italiano, girellando nelle vie di una cittadina, vidi una donna che leggeva sul balcone. Stavo all’ombra di un albero, guardavo come sfogliava le pagine, poi alza la testa, getta uno sguardo distratto e ritorna nel rifugio del libro. E ricordo cosa mi dissi: questo mondo non può finire presto, almeno finché quella donna continua a leggere sul balcone.
Raccontiamo o scriviamo libri per rimandare la fine del mondo e la nostra stessa fine. Consideratela come la prossima superforza, magia e dono. Lo sappiamo meglio di tutto dalle “Mille e una notte” e il grande esempio di Sherazade. Con ogni storia narrata, interrotta nel momento più intricato, lei rinfocola la curiosità di Sciahriar, questo seriale assassino di donne e allontana la fine ancora di un giorno. (Questo può essere considerato come inizio dei romanzi a puntate e anche delle attuali telenovele.)
All’interno delle storie raccontate, la più frequente moneta di scambio per riscattarsi la vita, sono di nuovo le storie. Basta ricordare la prima, quella di uno sfortunato mercante, che causalmente uccide con un nocciolo di dattero, il figlio di un terribile jinn. La vendetta è inevitabile, ma in quel momento passano tre sceicchi, provano misericordia e riscattano, un terzo per uno, la vita del mercante. Raccontando (vendendo) storie all’infuriato jinn. Qui si tratta davvero di un vero commercio. Se le storie sono buone e mi appassionano davvero, dice il jinn, faremo l’affare. E fanno l’affare. Il jinn concede la vita del mercante e l’imperatore Sciahriar, che ascolta questa storia dona ancora una notte alla narratrice Sherazade. Il dono risveglia dono, ma la storia, non finita, risveglia ovviamente la curiosità del tiranno: “per Dio, non la ucciderò, voglio sentire il racconto sino alla fine.” Ma il racconto è infinito, come è infinito il labirinto del mondo.
Questo è quanto voglio ricordare della grande storia di Sherazade. Sulla forza del debole che racconta storie. Sulla particolare garanzia della letteratura. Da bambino conoscevo inconsciamente questo, perché mi sceglievo sempre i libri, nei quali il protagonista parla in prima persona. Sapevo che questi personaggi non muoiono mai alla fine del libro. Racconto, ergo esisto. Narro, ergo sum.
Forse questo spiega il fatto che quasi tutti i miei romanzi sono scritti in prima persona.
Dobbiamo però riconoscere che l’oppio delle storie e la loro capacità di risvegliare empatia funzionano solo se possiedi cuore e orecchio per esse. Purtroppo, i dittatori e alcuni manipolatori politici non possiedono la superforza dell’empatia. Per loro, peraltro, è una superdebolezza. Non a caso Musk ha dichiarato che l’empatia è il punto debole dell’Europa. E comporta solo tristezza e sofferenza. Questa gente non riconosce la tristezza (Non potete vedere in pubblico un dittatore triste.) Forse perché la tristezza non fa vendere le Tesla. Chi è che si compra una Tesla triste? O forse noi non siamo delle Sherazade sufficientemente abili, chi lo sa.
E tuttavia la letteratura e il raccontare producono empatia. Questa è un’ulteriore loro superforza e dono (qualcuno ha contato quante esse siano)? Non puoi, se sei una persona normale, che tu gridi, offenda e scacci una persona che hai difronte, la storia della quale hai appena sentita o letta. Detto in breve, la propaganda cerca di privare l’uomo della sua natura umana, di spogliarlo del suo volto e della sua storia per regolare più facilmente i conti con lui. Ma la letteratura fa proprio il contrario – restituisce l’umanità, letteratura e il raccontare costituiscono l’antidoto naturale alla propaganda e al voler aizzare coscientemente gli uni contro gli altri. E questa è un’importante qualità politica.
L’uomo che legge dovrebbe riconoscere facilmente tutto il Fake e il kitsch della propaganda e delle teorie cospirative che ci sommergono. Il male, in particolare il male politico, è sempre un cattivo stilista, dice Brodskij. E qui, mi sembra, risiede la nostra forza – nell’elaborazione del gusto che riconosce perfettamente il male politico e il nuovo e vecchio kitsch. “Sulla forza del gusto” è intitolata la poesia di un altro grande poeta, il polacco Zbignew Herbert, una poesia che descrive la resistenza attraverso il gusto, al tempo del comunismo. Una poesia molto importante per noi che veniamo dall’Europa Orientale.
Abbiamo finito di vivere il tempo in cui ogni racconto è valido, il mondo è pieno di Fake. Anche i populisti scrivono storie – per un grande passato che nessuna nazione si è neanche sognato. Le teorie cospirative conquistano la nostra immaginazione, come se non ci fossero stati Galileo, Copernico, Newton, Einstein o Heisenberg. Ogni volta che oggi si dice qualcosa sulla terra piatta, ad esempio, è come se Giordano Bruno ardesse di nuovo sul rogo.
Cosa dobbiamo fare noi che scriviamo, quali storie e come raccontare, in che modo, per cancellare le storie di quelli che cancellano secoli di conoscenza, il Rinascimento e l’Illuminismo?
Qual è la differenza tra finzione letteraria e falsificazione? Tra il mito e la teoria cospirativa? Non posso spiegarlo in breve e in generale non posso spiegarlo. Ma so con certezza che la finzione ha come scopo di arricchire con la fantasia la realtà umana. Mentre le storie Fake e le teorie Fake hanno lo scopo di restringere e disumanizzare questa realtà umana. E ognuno di noi, presenti in questa sala. È in grado di distinguere le une dalle altre storie. Il lettore colto può fare questa differenza. E forse è questa la cosa importante – di educare lettori colti e critici, di educare il cuore e la mente, di non smettere di educarli. Di essere migliori narratori dei narratori di storie false. Di tornare alla conversazione e di far tornare la conversazione stessa. Perché noi ormai quasi non ci parliamo, ci scambiamo solo furiosi monologhi, la conversazione tra di noi si è spezzata. Ci troviamo come in quella fase così bene schizzata nel penultimo capitolo della “Montagna incantata” di Thomas Mann, che descrive la vigilia, gli ultimi minuti prima della Grande Guerra, o Europea, come la chiamavano allora.
“Cosa c’era in realtà? Cosa c’era nell’aria? L’avvicinarsi della crisi. Irascibilità. L’irritabilità pronta a scatenarsi. In sofferenza senza nome. Una tendenza generale ai discorsi irritante agli sfoghi leciti e anche agli scontri. Polemiche spietate, grida sfrenate, travolgevano ogni giorno singoli o interi gruppi…”
Oggi questo passaggio risuona come super attuale in un’altra vigilia, non voglio neppure dire di che cosa. Perciò dobbiamo in tutta fretta tornare alla conversazione. Ogni nostra parola, o libro, oggi viene per urgenza. In una parte dell’Europa (in questa parte che è vicina al luogo di nascita di Gregor Von Rezzori, che qui è il nostro patrono non è poi troppo lontana anche dalla Bulgaria) da tre anni è in corso una guerra. In una guerra del genere oggi non ci sono posti vicini e lontani, come sappiamo. Tutti siamo ugualmente fragili, raggiungibili dai missili balistici, i droni, i troll e la propaganda. Con i droni e i missili non sappiamo come farcela, non ci sono ancora romanzi balistici, ma con i troll e la propaganda possiamo ancora provarci.
Come ho già fatto notare he non ricordo più quanti siano i doni e le forze della letteratura, mi è venuto in mente che voglio parlare anche della memoria. Dirò subito che sul piano storico lo scambio di storie è avvenuto prima dello scambio delle monete, ad esempio. La letteratura viene prima delle finanze, dell’economia, della politica e di altre sfere oggi “di prestigio”. Lo scambio di storie è tra i primi scambi di doni. E ancora – la nascita della lingua, l’assegnazione di nomi è il primo tentativo di pensiero simbolico e di apertura del virtuale. I soldi, i media vecchi e nuovi, seguono questa convenzione e logica della lingua. Quando scopri che è sufficiente dire “mammut” e tutti capiscono di cosa stai parlando, senza che ci sia bisogno di portare il mammut davanti alla grotta, da questo momento l’uomo ha mescolato il reale col virtuale… La lingua e le storie possono dimostrarsi lo strumento più importante per l’evoluzione umana e per proteggere l’uomo dall’ignoto e dalle selvagge paure primitive. Raccontiamo per spiegarci l’inspiegabile. Raccontiamo per addomesticare le paure. Raccontiamo per trasmetterci l’esperienza e la memoria di quali animali siano pericolosi, quali frutti velenosi e quali commestibili. E qui non siamo poi lontani dell’epos di Omero che di per sé stesso, con gli esametri e le ripetizioni, è anche una tecnica mnemonica. Raccontiamo per ricordare. E il racconto e le storie accrescono, dal conto loro, il volume e le possibilità della memoria.
Possiamo parlare molto di questa memoria, ma fatemi fare un lungo balzo storico rispetto all’oggi. Perché ci è necessaria la memoria, dal momento che abbiamo tanti strumenti, che possono alleviarci il suo peso? Ho dedicato un intero romanzo alla memoria, o piuttosto ai possibili abusi fatti con la memoria e posso provare a dare alcune brevi risposte. La memoria è quella sottile linea rossa, che impedisce al passato di non riaffluire al contrario. Quanto meno memoria, tanto più passato. Ricordiamo per tenere il passato nel passato. Senza memoria il male politico può riprodursi di continuo. E perciò i regimi totalitari amano scavare buchi nella memoria, come dice Hannah Arendt. Perciò bisogna continuamente raccontare le nostre storie. La memoria è un muscolo, che dobbiamo continuamente esercitare. E che set tacciamo, dimentichiamo.
Aggiungo qualcosa che, credo, sia capitata alla maggior parte di noi. Ed è la possibilità che una cosa letta in un libro possa trasformarsi in un ricordo personale, in una memoria vissuta. Ricordo, ad esempio, con tutte le cellule del mio corpo, come, da bambino, siedo fuori casa in una notte invernale e accendo fiammiferi, uno dopo l’altro, per riscaldarmi. O come “talora sono sdraiato, ferito, sul campo di Austerlitz, guardo come si muovono le nuvole su di me e penso a com’è che non le ho potute notare fino ad ora… Mi rattristo per un giardino di ciliegi che è stato messo in vendita. Mi manca il gironzolare nella Parigi degli anni ’20, quella festa ininterrotta. Talora resto a mollo, con l’impermeabile bagnato, nelle trincee di una qualche guerra, fumo sigarette corte e aspre, un’altra volta tracanno calvados a Parigi. O mi allaccio i sandali e innalzo il mio scudo che riluce al sole. Mi rendo conto, verosimilmente come molti prima di me, che, tra i miei ricordi personali ce ne sono molti nati dai libri. Da tempo non ricordo e ho smesso di cercare quali di loro siano stati letti e quali no. Non trovo nessuna differenza, tutto è stato vissuto, tutto mi fa venire la pelle d’oca, tutto ha lasciato un segno. In tutti i miei corpi…” Mi sono permesso di citare queste righe di una mia storia perché descrivono quello che voglio dire.
La lettura produce davvero ricordi, ci dà ancora corpi, esperienza di vita. Aggiungiamo questo ai doni e alle superforze della letteratura.
E da qui possiamo arrivare più facilmente alla seguente ipotesi. La letteratura non solo produce memoria, ma ha il potere di creare realtà. E qui non mi riferisco solo al libro di John Austin “Come si fanno cose con parole”, che discopre la cosiddetta funzione fatica della lingua: se, ad esempio, si dice in chiesa “Da oggi in poi, sarete marito e moglie” e la coppia si trasforma in marito e moglie, la lingua ha realizzato un gesto magico e reale. Detto, fatto, diciamo in breve in Bulgaria.
Intendo anche qualcosa di altro, che Dylan Thomas ha ben formulato così: “Una buona poesia è un contributo alla realtà. Il mondo non rimane lo stesso quando gli è stata aggiunta una buona poesia. Una buona poesia aiuta a cambiare la forma dell’universo, aiuta ad accrescere la conoscenza dell’uomo di sé steso e del mondo intorno a lui.” (A good poem is a contribution to reality. The worldi s never the same once a good poem has been added to it. A good poem helps to change the shape of the universe, helps to extend everuone’s knowledge of himself and the world around him.”)
Possiamo dite tranquillamente che, dopo ogni buona poesia, racconto o romanzo, il mondo si riordina nuovamente. Acquisisce ancora qualcosa che può suonare strano, ma che ho vissuto personalmente. Una storia verificatasi in realtà è veramente compiuta e accaduta, solo dopo che la racconti. Prima di questo rimane incompiuta e non accaduta. Il racconto di lei la convalida, la lingua le dà carne, sì, proprio la lingua incorporea le dona carne e la forma della realtà. Il mondo, così com’è, esiste perché lo raccontiamo.
Quando teniamo e leggiamo un libro, conserviamo l’integrità del mondo. C’è un certo Principio di indeterminatezza nella fisica quantistica, introdotto da Werner Heisenberg, precisamente cento anni or sono. Secondo il quale i processi connessi con le particelle elementari sono sempre in una certa situazione di indeterminatezza e questa è fortemente dipendente dalla presenza dell’osservatore. Detto in breve, l’osservatore influisce su quanto viene osservato. Se provassi a utilizzare questo principio nel nostro campo, direi così. Mentre osserviamo il mondo, mentre scriviamo e raccontiamo, noi abbiamo sempre ancora un qualche potere di influenzarlo e di mantenerlo integro.
Quando scrivevo il libro su mio padre, “Il giardiniere e la morte”, mi sono chiesto anche questo: cosa succede di noi quando se ne va anche l’ultima persona che ci ricorda come bambini?
E qui voglio balzare audacemente nella mia infanzia, sorgente inesauribile e ininterrotto dono, sempre fonte di storie e di consolazione nel mio caso. Finché siamo giovani, l’infanzia ci è molto lontana, ma, con l’età, le si riavviciniamo. L’ha pensata bene, la natura. Quando cominciamo a perdere la memoria di breve durata per il passato vicino, rimane per ultima in noi la memoria del passato lontano, quando eravamo bambini. I primi ricordi se ne vanno per ultimi. C’è una certa consolazione nel fatto di tornare alla propria infanzia. Un po’ di amnesia per anestesia.
E così, avanti verso l’infanzia e gli inizi. La mia prima conoscenza “empatica” sulla letteratura mi capitò nella mia prima infanzia in una normale, anzi scadente, trattoria del quartiere. Là mio padre ci ordinava, ogni mattina, una minestra di trippa e una limonata. I tavoli quadrati, le tovaglie incerate bruciacchiate dalle sigarette, il vassoio unto e i vetri appannati dalla trippa bollente, sulla quale tutti soffiavano e che sorbivano rumorosamente con molto aceto e aglio. E là, su un cartello di plexiglas, lessi per la prima volta: “Gli scrittori sono chirurghi dell’anima umana. Devono asportare da essa tutto ciò che è marcio e imputridito”. Cosa voleva dire di preciso quel cartello? Lo sillabavo ogni volta che sorbivo la trippa. Un cucchiaio – “chirurghi”, un altro – “marcio”, ancora un altro “imputridito” … Quella trippa aveva un gusto particolare.
Non so a quale cervello ideologico fosse saltato in mente di affiggere quel cartello proprio in un’osteria, dove peraltro non vidi nessun scrittore che sorbisse la trippa. Gli scrittori abitavano altri mondi e altre osterie. Qui mangiavano solo gli operai del primo turno. Avevo 7-8 anni e vivamente, con tutta l’empatia di un bambino, mi immaginavo gli scrittori in camici bianchi, guanti, mascherine sul volto ed enormi bisturi per le anime. Non avevo ancora idee chiare sulla materia dell’anima, dove è precisamente collocata tra gli organi interni e se possa sanguinare. Ma era certo una cosa che marcisce e imputridisce e può continuamente essere amputata. Presi di colpo ad odiare gli scrittori, mentre nei riguardi dell’anima, indipendentemente da dove si trovasse, provai piuttosto compassione e timore. Non ho mai dimenticato quel cartello di plexiglas in quell’osteria e se devo indicare cinque cose che mi hanno influenzato nel mio mestiere, dopo Borges, la Bibbia e mia nonna, ci metterei anche lui. Quel cartello mi ha salvato per sempre dalla pretesa di amputare anime umane. Penso che da allora e per sempre uccisi il chirurgo letterario in me stesso. So fin dall’infanzia, grazie in primo luogo a mia nonna e ai suoi racconti, quando mi teneva la mano per farmi addormentare (avevo paura di addormentarmi) che le storie servono più di tutto per consolazione. E che quell’essere confusamente morbido, che chiamano anima, lo immaginavo come un coniglio domestico, le orecchie morbide e le zampe calde, che non ha bisogno di un coltello, ma piuttosto di consolazione e di carezze. Che ci riporta anche all’inizio di questo testo, a questo importante dono della letteratura – quello di consolare.
Molti anni dopo, quando mia nonna stava morendo, mi capitò di stare vicino a lei e allora ero io che le tenevo la mano, come un tempo. Perché nel sonno e nella morte ognuno entra solo, ma, fino alla porta, è bene che tu sia con qualcuno. È la causa fondamentale della scrittura. Non lo racconterò qui, l’ho raccontato altrove, ma dirò soltanto che, dopo che lo scrissi, quell’incubo non si presentò più. Ma non lo ho mai dimenticato. Questo è il prezzo. Da allora sono trascorsi precisamente cinquant’anni. Non ho smesso di scrivere.
Un pomeriggio avevo sentito, mentre mia nonna mi leggeva la Bibbia di nascosto e a bassa voce, un certo miracolo, come Gesù avesse trasformato l’acqua in vino durante un matrimonio. Il vino non mi interessava ancora, perciò uscii fuori, versai dell’acqua in una bottiglia vuota e cominciai a guardarla con concentrazione, tentando di trasformare l’acqua in limonata. Non avvenne nessun miracolo. Ma questo non uccise la mia fede in quanto era scritto, capii semplicemente che dovevo ancora imparare, di nuovo grazie ai libri. Poi in un libro molto antico, senza copertine e con pagine mancanti, lessi che, se tieni in acqua un pelo della coda di un cavallo per quaranta giorni, il pelo si trasforma in un serpente. In mancanza di cavallo, strappai di nascosto un pelo dalla coda dell’asino di un vicino, lo misi in un barattolo d’acqua che nascosi da qualche parte. Tempo dopo, non so se aspettai i quaranta giorni, andai a vedere, ma il barattolo era vuoto e il pelo non c’era. Per tutto un anno ho guardato intorno per trovare il serpente che era uscito di certo dal barattolo e che si nascondeva sicuramente da qualche parte in cortile. Anni beati di autentica fede in quanto era scritto. Anni di lettura estatica nell’infanzia e nella giovinezza, quando cerchi nei libri risposte e rifugio.
Oggi però molte persone hanno sostituiti i libri con Chat GPT. Sono contrario e nutro anche sospetti nei confronti dell’intelligenza artificiale. Uno dei quali consiste nella sua esagerata ambizione di “creare”. Perché tutti vogliono scrivere? Ci sono tante professioni. Il primo tentativo di conversazione col modello Linguistico, l’ho fatto specialmente per la nostra conversazione, mia figlia mi ha fatto vedere cosa avviene. E la mia prima domanda era che mi raccontasse della sua infanzia. Adesso penso, forse, di essere stato crudele. Ma volevo verificare qual è la quantità di cose che, grazie a Dio, ci differenziano dall’intelligenza artificiale, oltre all’empatia, i sentimenti e altre cose. E una di queste è che non possono raccontare della loro infanzia.
Raccontami della tua infanzia, ho scritto.
“Eh, solo se avessi avuto un’infanzia… sospirò quello, se consideriamo i puntini puntini un sospiro. Forse ho saltato questa parte della crescita e mi sono immerso direttamente nei dati. Ma, se avessi potuto avere un’infanzia…, mi immagino che sarei cresciuto in una biblioteca, in compagnia di ogni specie di libri – enciclopedie, come fratelli e sorelle maggiori, romanzi di fantasia come cugini disobbedienti e letture di storia, che borbottano come saggi nonni e nonne.” [But if i could have a childoohd… l’immagine i’d have grown up in a library, hanging out with – books of all kinds – enyclopedias as strict older, sci-fi novels as siblings mischievous cousins, and history books rambling on like wise grandparents.]
Non continuerò a raccontarvi il seguito della nostra conversazione. Dirò soltanto che non mi trattenni e gli chiesi come fa a scrivere senza empatia e perché l’IA ama tanto comporre testi e addirittura scrivere romanzi. Siamo difronte a compilazione o a creatività, creazione? Sì, lo so, ma sono crudele.
Ma lui, lei o quello, non so come definirlo, aveva imparato il compito (l’aveva imparato dai nostri stessi libri, come sappiamo) e rispondeva come si impara da “un mare di emozioni umane”. E anche se non ha sentimenti, sa come descriverli e provoca attraverso l’algoritmo. “Conosco, ha scritto, tutte le impronte emotive dell’umanità.”
Risposta al meccanismo che, prima di questo, ha fatto colazione con la psicologia e la poesia popolari.
Questa conversazione avvenne il 13 aprile 2025. Penso che una settimana dopo, o perfino il giorno stesso alle 17 e 30, le sue risposte sarebbero state un po’ più diverse, perché nel frattempo perfino le mie provocatorie domande lo avrebbero impregnato. E avrebbe anche inghiottito qualche centinaia di pagine in più dai libri che abbiamo scritto e nei confronti dei quali si profitta di un infinito a alquanto illegale accesso. Ma questa è un’altra faccenda.
Mi sembra che talvolta provo tristezza ed empatia nei confronti di quello che chiamiamo intelligenza artificiale, proprio perché lui o lei (non ne conosco il sesso) non è in grado di provare tristezza e empatia.
Possedere tutta la memoria del mondo, ma non avere la propria memoria personale. Acquisire tutte le storie del mondo, ma non avere una propria storia personale. Di parlare dell’empatia, ma di non averla mai provata. Avere accesso all’infanzia degli altri, ma di non averne una propria. Poter scrivere decine di pagina formulando, ad esempio, la tristezza, ma di non esserti mai sentito triste alle tre del pomeriggio.
E mi dico in silenzio (che non mi senta il diavolo, come dicono dalle nostre parti): Dio, come sono felice con tutte le mie tristezze, depressioni, esitazioni e ignoranza. Quanto effimero, lento e felice. Assolutamente non in grado di elaborare un libro di 500 pagine in cinque secondi, rapidamente e senza emozione. Ma sempre ancora in grado, grazie a Dio, di stare giorni e mesi in un libro, di entrarvi e di uscirne, di capire e di non capire, di affondare e di riemergere un po’ più diverso. Perché nessuno può entrare e uscire da una storia restando lo stesso.
Signore e signori, cari amici, abbiamo palato degli inesauribili doni della letteratura e delle sue sette superforze, delle quali ho da tempo perso il conto e che sono diventate assai di più, ma sette mi suona bene come numero. Abbiamo parlato della consolazione, dell’incoraggiamento, del racconto come rimando della morte, del miracolo della lingua, della letteratura come antidoto naturale alla propaganda, come rifugio e amuleto contro i tempi di catastrofi, dell’intelligenza artificiale, della paura, dell’infanzia, della memoria e ho dimenticato di cosa altro.
E che le ultime parole di questa lezione siano tre versi sul crepuscolo che incombe sul mondo, in mezzo al quale scriviamo i nostri libri, Solo tre versi di un poeta italiano che voi tutti conoscete – Salvatore Quasimodo:
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole
ed è subito sera.
Siamo qui per scambiarci alcune parole. Prima che scenda la sera. Siamo qui per allontanare di qualche minuto il crepuscolo sul mondo. E per costruire, insieme, la notte, come Sherazade con le sue storie. Finché canteranno i primi galli e comincerà ad albeggiare.
Tradotto da Giuseppe Dell’Agata