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LE PERSONAE DELL’ESTATE

John Banville

17 Maggio 2008

Essere stato invitato a parlare in occasione del secondo premio Vallombrosa-Gregor von Rezzori è un grandissimo onore. Giungo qui con la viva consapevolezza di seguire le orme dell’amico Claudio Magris, che l’anno scorso, all’inaugurazione del premio, pronunciò la prima lectio magistralis, definizione, nel suo caso, perfettamente appropriata. Io non posso sperare di eguagliare l’eloquenza, l’eleganza e lo spirito del suo discorso; e inoltre, com’è naturale, lui ha avuto la fortuna di potersi rivolgere a voi in una lingua che non presentava ostacoli di comprensione. Ecco le mie scuse, un poco contorte, per l’impossibilità di parlarvi in italiano. Venni per la prima volta in Toscana, e a Firenze, nei primi anni Settanta. Si dice – o perlomeno io l’ho detto – che per conoscere davvero una città bisogna innamorarsi in quella città. E immagino che proprio questo mi successe nel luogo natale di Dante, di Botticelli e di Brunelleschi. L’oggetto del mio amore, tuttavia, non era una donna del mondo reale, ma il personaggio di un romanzo. Io, mia moglie i nostri due bambini, all’epoca ancora piccoli, alloggiavamo in un alberghetto vicino alla basilica di Santa Maria Novella. Allora stavo leggendo per la prima volta il grande romanzo di Henry James Ritratto di signora. Ampie porzioni di quel romanzo sono ambientate a Firenze, nelle grandi case e nei palazzi di città, e in collina, a Bellosguardo. E proprio allora scoprii, con intenso piacere, che James aveva scritto gran parte del libro in una stanza d’affitto che dava sulla piazza di Santa Maria Novella, con vista sulla facciata policroma dell’Alberti. Ero già innamorato di Isabel Archer, la signora il cui ritratto James ha dipinto in modo così vivido, e in quei giorni, camminando sulle stesse pietre dov’erano passati lei e il suo creatore, mi innamorai anche di Firenze. Da allora sono ritornato molte volte in Toscana, ma di quella prima visita conservo un ricordo particolarmente vivido. Rammento alla perfezione non soltanto la prima volta che vidi i quadri di Botticelli agli Uffizi – all’epoca era ancora possibile entrare con facilità nella galleria per visitarla con tutta calma e a volte persino in solitudine – ma anche il mio primo piatto di saltimbocca, mangiato in una piccola trattoria accanto al nostro albergo in via della Scala, gestita da due fratelli immensamente alti e incredibilmente magri, mesti e premurosi. Sono rimasti nella mia memoria, quei due fratelli, tra una folla di personaggi che comprende Isabel Archer, Gilbert Osmond e madame Merle, la Venere e la Flora di Botticelli, e il fantasma di com’ero allora, un giovane insicuro, ambizioso, avido di esperienza, una versione scarsamente riconoscibile di come mi vedo oggi. Fermarmi a osservare queste figure emerse dal passato mi fa pensare a Dante e a Virgilio davanti alle anime inquiete che affollano le tristi sponde dello Stige.

Mi domando se Henry James si sentisse a suo agio nella stanza d’affitto di piazza Santa Maria Novella. Mi piace immaginarlo curvo sullo scrittoio, profondament concentrato, mentre con una smorfia si lamenta al primo insorgere del crampo dello scrittore che avrebbe tanto afflitto la seconda metà della sua vita. Nell’artista ingenerale e nello scrittore in particolare c’è qualche cosa di quasi sacerdotale: il misto di arroganza e di umiltà, le devozioni quotidiane, la disponibilità di un confessore a prestare attenzione alle manie e alle paure dei laici. Lo scrittore entra in una stanza, l’inviolabile sancta sanctorum – lo studio – e vi resta da solo per ore e ore in un silenzio sovrannaturale. Con quali divinità entra in comunicazione, quali riti pratica?

Per certo sa qualcosa che gli altri, i non iniziati, non sanno; di certo ha accesso a una saggezza assai superiore alla loro. Ah, se solo fosse così. La triste verità è che probabilmente lo scrittore sa della vita meno dei suoi personaggi. È soltanto il loro inventore, dopo tutto, solitario e ossessionato; loro sono miriadi e vivono al posto suo. In un saggio sulla vita da scrittore, George Orwell sfata bruscamente il mito dell’artista che genera capolavori di ineguagliabile profondità mentre patisce la fame in una soffitta. Le opere migliori, sostiene Orwell, si scrivono in una stanza confortevole, con un bel fuoco che arde nel caminetto e qualcuno che ti serve con regolarità salutary tazze di tè forte e caldo. La prima volta che ho goduto dell’ospitalità della fondazione Santa Maddalena a Donnini, era un marzo dal freddo pungente, ma la stanza di lavoro a me assegnata nella famosa torre era calda e ben illuminata, e vi si godeva una vista verso Vallombrosa, al di sopra delle cime degli alberi, davvero magnifica e – lo ammetto – a volte capace di distrarmi. Beatrice von Rezzori, se non portava corroboranti tazze di tè nella torre, lasciandomi invece con grande tatto solo con il mio lavoro, la sera rimediava ampiamente con qualcosa di più forte del tè, e il conforto della migliore conversazione cui si possa aspirare in questi tempi sempre più tetri e laconici.

Lo spirito di Gregor von Rezzori era palpabile – e invero lo è ancora – nella casa e nei giardini di Santa Maddalena. Tale spirito, quella prima volta, non fu per me interamente benigno, ma nemmeno avrei desiderato che lo fosse: la mera simpatia, specialmente nel regno degli spiriti, è una qualità ampiamente sopravvalutata. Quel che restava di Grisha era malizioso e provocatorio: voleva sapere con che diritto stavo lì, a camminare sulle sue terre, a bere il suo vino, ad apprezzare gli aneddoti di sua moglie. E, forse perché mi ero recato lì per creare personaggi letterari, mi venne in mente che Grisha allora, a Santa Maddalena, sembrava proprio questo: un personaggio di una storia, una storia di cui anch’io facevo in qualche modo parte. Lo spirito che sentivo aleggiare aveva tutte le qualità – urbanità, divertita ingannevolezza, provenienza lievemente misteriosa – di una figura quale si potrebbe incontrare in un racconto di Henry James, in una vecchia casa con un bel giardino,  in Italia, in primavera. Perché è questo che i defunti più vicini a noi diventano, personaggi nella storia ininterrotta che – così ci raccontiamo – è la nostra vita. “Creare personaggi” è in effetti strano come suona l’espressione stessa. Che cosa significa? Il sostantivo non è meno sconcertante del verbo. Che cosa sono I personaggi di finzione? Che grado di realtà hanno? Anzi, è concesso anche solo parlare di realtà in questo contesto? È possibile far esistere la realtà con

l’immaginazione? Il poeta Wallace Stevens sostiene che “il mondo immaginato è il bene supremo”, e visto che è un poeta possiamo concedergli l’ampia illusion dell’esistenza di un “bene supremo”; sappiamo cosa intende dire, e in poesia questo è spesso più di quanto ci si possa ragionevolmente aspettare. Voglio citare due passi che possono fungere da epigrafi o, meglio, da emblemi per il mio argomento di oggi. Il primo è ancora di Wallace Stevens, e indica che aveva un’idea ben precisa di quale sia la vocazione del romanziere o, per dirla in termini meno pomposi, di che scopo persegua il romanziere con il suo lavoro:

Le maschere d’estate son gli attori
d’un selvaggio poeta, che di notte
medita in prati azzurri con gl’insetti
d’oro: e pur non udendoli, li vede
variegati, in costumi capricciosi

di cielo e di sole, d’azzurro e giallo, cinti,
attillati, trapunti e infusciaccati,
in bande verdi e rosse, atte al decoro
ed alla moda di stagione, parte
del vario umore dell’estate intera,

dove gli attori, rosei e pingui, parlano
perché vogliono parlare, per un attimo
liberi di malizia e di singhiozzi,
perfetti recitando in un perfetto
gesto le loro parti in fresca gioia.

La seconda citazione è un paragrafo del mio romanzo Ghosts. Il narratore sta pensando a un quadro, una fête galante, di un pittore di nome Vaublin, che ha più di una notevole rassomiglianza con il grande Jean Antoine Watteau:

Ciò che accade non ha importanza; il momento è tutto. Questo è il mondo dorato. Il pittore ha radunato i componenti del suo piccolo gruppo e li ha posati in questa valletta scossa dal vento, in questa delicata luce artificiale, e li ha dipinti come angeli e pagliacci. È un mondo in cui nulla è perduto, in cui tutto ha una ragion d’essere eppure il mistero delle cose è preservato; un mondo in cui essi possono vivere, per quanto di una vita breve, per quanto rarefatta, nel crepuscolo dell’io, solitari e al tempo stesso in qualche modo insieme qui, in questo luogo, forse morenti, forse, eppure fissati per sempre in un istante luminoso, senza fine.

Chi sono, questi angeli e pagliacci, queste personae d’estate? Da dove vengono, e perché sono chiamati alla vita? A dispetto di ogni avvertenza, i lettori insistono a credere alla realtà dei personaggi dei romanzi. Don Chisciotte, Emma Bovary, Leopold Bloom possono sembrarci più vividamente reali delle persone vere in mezzo alle quali trascorriamo la nostra esistenza. Il patto che il lettore stipula con il testo narrativo è misterioso e affascinante. Per quanto duramente lo scrittore metta alla prova la credulità del lettore e la sua volontà di sospenderla, il contratto resta valido: Lemuel Gulliver, pur inverosimilmente immobilizzato sulla sabbia da una moltitudine di persone minuscole o interrogato da cavalli parlanti, per noi è completamente vivo in uno dei molteplici mondi della finzione letteraria. Quando lo scrittore è nei suoi anni di apprendistato, la creazione dei personaggi appare la cosa più naturale del mondo. È giovane e ha ancora addosso qualche scaglia iridescente della crisalide spezzata dell’infanzia. Il suo passato è un’antichità recente, popolata di figure fiabesche: Madre, Padre, Fratello, Amico. È come un sonnambulo sull’isola di Pasqua, circondato di gigantesche effigi tutte simili eppure stranamente differenziate, stranamente individuali. Scrive come sotto dettatura degli antenati.

Quale romanziere non guarda agli anni degli esordi con meraviglia e quella dolente invidia che l’immagine di noi stessi giovani ci ispira? Quanto gli sembrava facile allora creare quegli esserini di carta, e, una volta creati, quanto erano malleabili, pronti alle sue necessità, avidi dei suoi ordini, disponibili a obbedire alle sue istruzioni. Tutto il giorno sedeva nel suo studio, come un barone Frankenstein in vena di scherzi nel suo laboratorio crepuscolare, ad assemblare i suoi mostri in miniatura usando pezzetti raccolti qua e là: un paio di occhi azzurri intravisti a una festa, una mano sottile che porge il resto in un negozio, una voce udita a un angolo di strada, la curva di una schiena pallida alla luce bianca del sole, su una spiaggia. Come osserva Nietzsche, nei propri sogni ogni uomo è un artista. Nessuno scrittore ha l’abbondanza di immaginazione del meno brillante dei sognatori. Chi è stupido di giorno sarà un maestro di fantasia la notte. Paesaggi persiani, viaggi sulla luna, uno squadrone di cavalleria al galoppo su una spiaggia al crepuscolo, genitori perduti riportati in vita con la massima naturalezza, il sorriso di una prole che in realtà non esiste, volare senza sforzo, donne dalla fantastica disponibilità, un tesoro in rupie, un cane che balla, un aeroplano nel soggiorno: mentre dormiamo nulla è impossibile, nulla ci viene negato. Come farà lo scrittore da sveglio ad affrontare tale prolissità? Il segreto, per il romanziere, è di essere insieme sveglio e in sogno. La disciplina è tutto. La creazione artistica è l’applicazione di leggi non specificate a una material incoerente. Edmund Wilson parla con ammirazione della “classica equanimità” di Henry James nel trattare forze diverse, o della sua “combinazione, altrettanto classica, di duro realismo e armonia formale”. Il sogno dev’essere ritagliato, plasmato, modellato, lucidato. La mera invenzione è mera invenzione; chiunque può tirar fuori una storia di fantasia dal nulla, ma solo l’artista può darle solidità e farla sembrare una necessità. L’opera d’arte è, a un certo, fondamentale livello, la soluzione palese a un

problema tecnico. Un romanzo non è affatto come la vita, eppure può sembrare più appassionante della vita stessa.

Sembra in effetti che uno dei piaceri che ricaviamo dall’arte sia la sensazione dolcemente malinconica di entrare in contatto con qualcosa che è già terminato e al tempo stesso ancora presente, seppure in forma residuale. A ogni istante che passa si allontana da noi, a ogni istante ci allontaniamo da noi stessi. Ci lasciamo continuamente alle spalle qualche cosa della nostra identità essenziale, invisibilmente, impalpabilmente, come polvere non tegumentale. Dove se ne va, questa essenza che man mano perdiamo? Dov’è conservato ciò che eravamo un tempo, ciò che un tempo era noi? Nell’arte, transitiamo in un mondo che non esiste, non è mai esistito, che è totalmente immaginato, eppure in qualche modo totalmente reale. È un luogo insieme sconosciuto e del tutto familiare. Non è un luogo magico o incantato, bensì del tutto terreno. Assomiglia al mondo come lo conosciamo, normale e quotidiano, eppure stranamente intriso di un significato inscrutabile. E sembra che sia nostro – sembra che sia noi, grazie al potere di qualche elementare magia – diversamente dal mondo, che, sebbene non ci sia ostile, ha una stolida indifferenza per noi e per il nostro destino. Ecco di nuovo Wallace Stevens:

Da questo nasce la poesia: che viviamo
in un luogo non nostro, e che non siamo noi,
ed è arduo, ad onta dei giorni d’orifiamma.

Il fatto è che la nostra esperienza nel mondo è totalmente diversa rispetto alla nostra esperienza nell’arte. Non ricordiamo la nostra nascita, non prenderemo coscienza della nostra morte: tutto ciò che abbiamo sono il caos e la confusione tra l’una e l’altra. Come ha sottolineato il critico Frank Kermode, una delle cose per cui ci rivolgiamo all’arte è il “senso di conclusione”. Nella vita niente viene mai completato, mai risolto; tutto si ramifica, all’infinito. Il romanzo, la poesia, il quadro, il quartetto d’archi hanno tutti – non importa quanto siano innovativi nel contenuto o dirompenti nella forma – un inizio, uno svolgimento e una fine. L’opera d’arte è un oggetto levigato, rifinito, che si erge completo e inviolabile nel mondo. È per questo che ci soddisfa, è per questo che ci riempie – sia pur soltanto nei giorni in cui siamo più ricettivi, e solo per un breve momento – di quel senso di quiete e beatitudine che non troviamo mai altrove, neppure, come ai vecchi tempi, nella religione. Poiché siamo qui, in Toscana, vorrei concludere evocando altre due figure del luogo ben vive nella mia mente, entrambe legate a Borgo San Sepolcro, entrambe, in realtà, un volto diverso dello stesso personaggio. Le ho incontrate per la prima volta di persona, se così si può dire, non molto tempo fa, in compagnia di Beatrice von Rezzori e del nostro amico Max Rabino. Ho iniziato ricordando la mia visita a Firenze, tanti anni or sono, e la visione della Primavera e della Nascita di Venere agli Uffizi. L’angelico Botticelli, come Raffaello, è un pittore che si ama in gioventù. È tutto compostezza, giovanile eleganza e freschezza primaverile. Con l’età, tuttavia, si impara ad apprezzare un altro tipo di artista. La Resurrezione di Piero della 

Francesca, nel Museo Civico di Sansepolcro, è per certo una delle opere più importanti della pittura di tutti i tempi. Molti capolavori vengono descritti come “senza tempo”, ma questo potrebbe davvero essere stato dipinto in qualsiasi periodo degli ultimi tremila anni. I cittadini dell’Atene di Pericle avrebbero riconosciuto questo dio guerriero con la stessa facilità dei prìncipi della Chiesa militante contemporanei di Piero. Questo Cristo non è né mite né docile; non è un agnello sacrificale. È il Dio di tutti gli dei, è Zeus quanto Gesù. Prima di essere tutto questo, però, è un uomo, non puro, e non semplice.

La bellezza, dice Rilke, non è che l’inizio di un terrore che siamo ancora in grado di sopportare. Il pittore noto come Rosso Fiorentino sarebbe stato d’accordo. In tutta la sua opera la figura umana cede, pallida e stupefatta, davanti al soverchiante peso del grottesco. Vuole creare oggetti splendidi, lo si vede nell’amore con cui stende i colori, quei rossi arrugginiti e pulsanti, gli azzurri-argento, i marroni-cioccolato, ma il suo demone sempre gli sussurra con voce rauca – rauca per le risate – che il mondo è troppo, davvero troppo squinternato per perseguire ancora le vecchie piacevolezze. La mente di Rosso è un manicomio, e il suo compito è descriverne gli ospiti. Nella Deposizione del 1528, quegli ospiti hanno preso il sopravvento. Il quadro è appeso nella chiesetta di San Lorenzo, stretta nell’angolo di un vicolo di Sansepolcro. La chiesa non è distante dal Museo Civico e dalla Resurrezione di Piero, ma i due dipinti sono quanto di più lontano si possa immaginare.

Sulle prime, vista dal fondo della chiesa, la Deposizione potrebbe sembrare l’illustrazione di un possente fortunale – un Turner più estremo, magari – tanto tempestosa è la composizione e tanto violenti i colori. Il Cristo grigio-mummia posto al centro del quadro, con il suo enorme torace a volta – Rosso chiaramente sapeva che le vittime della crocifissione per lo più morivano per soffocamento –  somiglia soprattutto a una gigantesca cavalletta. A circondare il Cristo c’è un turbine di figure colte in vari stadi di dolore e disperazione; a catturare lo sguardo, però, è la straordinaria creatura scimmiesca sullo sfondo, con un bastone o forse una lancia posata baldanzosamente sulla spalla, che tiene quel che sembra uno scudo con la mano sinistra. Chi o che cosa può essere? La Deposizione è uno dei quadri più stupefacenti mai dipinti. Combina orrore, lutto, furia e una bellezza soprannaturale, il tutto sotto una patina di colore limpido e superfici sontuose, la cui ricchezza non fa che aumentare l’orrore della scena. Come dice Auden, “Sulla sofferenza non sbagliavano mai / i vecchi maestri”. Isabel Archer, i due fratelli spettrali, una giovinetta bionda su un guscio di conchiglia; Chisciotte, la povera sciocca, predestinata Emma Bovary, Poldy Bloom; i pagliacci da commedia dell’arte di Vaublin; un Cristo trionfante e un Cristo deposto dalla croce; lo spettro di un defunto in un giardino: questi sono gli attori rosei, le personae d’estate, nei loro giorni sfolgoranti. Perché quasi sempre allo scrittore di romanzi pare di essere solo una specie di bambino che ha ottenuto il permesso di restare a giocare in cortile dopo che tutti gli altri sono stati richiamati a casa. Crea le sue figurine, le camminare e gesticolare per un po’ e poi le abbatte di nuovo. Sono sue, dopo tutto, e ne può fare ciò che vuole. Sono i suoi giocattoli. Eppure, per altri hanno una vitalità travolgente. Esistono. Si muovono. Comunicano un Hiersein rilkiano, un essere-qui, che sembra abbia bisogno di noi: questo fugace che stranamente ci concerne. Di noi, i più fugaci.


Traduzione di Alba Bariffi