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GREGOR VON REZZORI: EPIGONE, PRECURSOR

Claudio Magris

May 26th, 2007

“I don’t ask you to approve of this, I ask you merely to understand.”

Toward the end of The Ermine in Cernopol, when Mr. Tarangolian, the prefect of Teskovina, takes leave of the narrator’s family, announcing his departure from the province (fated to be put off indefinitely), the narrator, too-the elusive and restless flatus vocis that is always about to get lost in the hubbub of the marketplace, of the voices it picks up, tangles with, and invents, to dissolve like a face reflected in rippling water-takes his leave, after a long illness. He takes leave of childhood and of the city, Tchernopol, that is its substance and mirage, a Christmas tree decorated with balls of many colors that turn out to be soap bubbles. He has to enter life, as relatives and teachers tell him, insistently praising the joys that await him. But, listening to them, he has the impression that those imminent and heralded pleasures do not concern him; it seems to him that they are talking about the goods sold at the emporium of Dobrowski & Dobrowski.

What does it mean to enter life, enter reality? Where are you before you go into that emporium which puts on display so many things to buy and consume; where are you left if-like the elusive, illicit character who in Rezzori’s novels and memoirs says “I”, with the sad, sly expression of one doing something illegal-you never go in, if you stay outside, in the open, an alien? Undeniably outside is the “man without a country” who is, in different guises, Rezzori’s character, his alter ego but also his double, stuntman and ghostwriter, the creature and the creator of that alternation and exchange of the real and the false, that “amusing and disturbing” game immortalized in The Ermine, in the immortal Mr. Tarangolian.

Gregor von Rezzori è uno straordinario poeta di quello iato che, per l’uomo moderno, si è aperto fra l’io e la vita, per cui essa non è più la sua vita, bensì un territorio nel quale egli non riesce a penetrare e ad inserirsi, un’estraneità che egli ama di un amore struggente e disincantato, ma alla quale non sente di appartenere, in una continua fuga da qualcosa ch’egli non ha mai posseduto e che quindi non è sua, ma di cui egli ha nostalgia, come se l’avesse perduta. E’ un tema che la sensibilità e la letteratura europea – e specialmente centroeuropea – hanno sentito fortemente. Hofmannsthal, in una lirica giovanile, piange “un rimpianto senza nome / muto in me della vita”; per Richard Beer -Hofmann, “muta dai bordi delle erte sponde ci guarda la vita, da cui ci dipartiamo”; nell’Oblomov di Gončarov, per gli abitanti del villaggio di Oblòmovka la vita scorre “accanto ad essi”, come un fiume sulle cui rive essi siedono a contemplarla; Niels Lyhne, nel romanzo di Jacobsen, crede di tuffarsi nel fiume della vita e invece resta seduto sulla sua riva, a gettar l’amo per tirar su non si sa che cosa, attende sempre di partire “verso le terre di Spagna della vita” e sente “il tintinnio delle monete della vita”, che ballano nella sua tasca senza che egli possa mai estrarle e spenderle; Rilke, in una lettera a Lou Andreas-Salomé, si chiede “quando è il presente?”, ossia l’unica vita concretamente esistente, che sempre si attende e invece si brucia, scrive Michelstaedter, in quanto la si sacrifica al futuro e si spera passi più velocemente possibile, perché si aspetta il responso del medico, l’esito delle elezioni, il matrimonio o il divorzio, sperando che oggi diventi quanto prima possibile domani e vivendo dunque non per vivere ma per avere già vissuto, per essere un po’ più vicini alla morte, per morire.

Le citazioni potrebbero continuare, poiché testimoniano uno dei motivi fondamentali del turbamento col quale la letteratura ha vissuto, tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti e Trenta del secolo Ventesimo, la svolta epocale della civiltà, che implicava quella scissione tra la vita e la vita genialmente colta dal giovane Lukács. Rezzori è un amante della vita, che pur sa irreale, e non certo dalla morte – semmai suo corteggiatore, che flirta con lei per abbindolarla e poi piantarla in asso, almeno finché è possibile. Derisorio anche nei confronti della propria morte, ha scritto Tilman Spengler, che lo vedeva, il giorno del suo funerale, come un beffardo sovrintendente alla dignità di quella scena. I morti al loro posto dice il titolo di un suo libro ispirato al lavoro sul set del film Viva Maria! di Louis Malle; le comparse, finita la pausa pranzo, si stendono a terra.

Rezzori non è un epigono di quella tradizione; è piuttosto un precursore che – per autoironia, buona educazione, savoir faire e garbo mondano – gioca a fare l’epigono, anche per scansare sgradevoli responsabilità, ma intuisce che, nei decenni che lo separano da quella grande letteratura modernista, è avvenuta – e sta avvenendo ancora – un’altra mutazione della società e dell’individuo, più meschina e più radicale, che rende la realtà e l’io ancora più simili alle mercanzie dell’emporio Dobrowoski & Dobrowoski della sua Cernopol, mercanzie a loro volta ancora più standardizzate e anonime.

Parlando della pittoresca Cernopol absburgica, e del suo favoloso Oriente, Rezzori ha parlato, in anticipo, del nostro odierno Occidente, in cui l’interscambiabilità di vero e di falso stampata nel volto del signor Tarangolian e nei suoi occhi “insondabili e malinconici” trova uno specchio dilatato e incurvato come quelli del Luna Park. Fra le tante volte in cui, nella vita d’ogni giorno e con un’improvvisa fitta di nostalgia, mi è venuto in mente Grisha, c’è quel pomeriggio in un paesino del Friuli che ho raccontato in Microcosmi, in cui, rivoltomi a un impiegato della Biblioteca della Comunità montana per chiedergli se avevano un libro di un poeta ottocentesco che aveva scritto un Inno alla Materia, quest’impiegato mi chiese: “Ma Lei, chi rappresenta?”, non riuscendo a concepire che qualcuno potesse cercare un libro e andare a zonzo per conto proprio.

Certo, avrei potuto dire che rappresentavo molte categorie: i bipedi, gli insegnanti, i coniugati, i padri, i figli, i viaggiatori, i mortali, gli automobilisti, ma.. E mi sono chiesto cosa avrebbe risposto Grisha. Forse avrebbe detto che rappresentava gli ex, come dicevamo entrambi in una conversazione di parecchi anni fa sul “Corriere della Sera”. “Credo – diceva allora – che la coscienza di essere un ex sia un vantaggio per uno scrittore, senza indulgere ad alcun folklore dell’ex Austria-Ungheria, ma in senso più profondo, che investe la vita in sé… sentirsi ex è in generale uno stato d’animo dell’uomo moderno. Certo noi ne abbiamo fatto un’esperienza particolarmente intensa, che forse ci permette di essere particolarmente sensibili allo spaesamento, alla perdita del mondo, al disorientamento. Forse anche tu, se non fossi triestino..”

Certamente Rezzori, nato nel 1914 (alla vigilia della fine del suo mondo, che non ha vissuto, ma inventato e ricreato) nell’absburgica Czernowitz, ha indossato con passione questa sua identità secondo il canone della tradizione austroungarica, di quel paese (Cacania, Maghrebinia, Taroccania) di cui già nel 1848 il barone Andrian-Werburg denunciava il nome puramente “immaginario”; in cui austriaco, secondo Musil, significava “un austro-ungherese meno l’ungherese” e la realtà appariva più che altrove “campata in aria”, fondata su nulla; un paese in cui Urzidil diceva di essere “hinternazionale”;”il primo paese – ancora Musil – al quale Iddio avesse tolto il credito e la vantaggiosa illusione di avere una missione da compiere” e che era andato in rovina per la sua mancanza di un nome preciso, per la sua “inesprimibilità”.

Rezzori è un grande poeta dell’impero absburgico e questa è una chiave del suo fascino, specialmente nell’Ermellino a Cernopol: “Negli abbaglianti tramonti della tarda estate sembrava ancora di scorgere un riverbero della gloria che aveva preceduto la fine della duplice monarchia. Le strade provinciali, ampie e comode, tagliavano le immense campagne come argini gettati da una sobria prudenza demaniale su un paesaggio ubriaco di malinconia: strade del tempo delle marce a piedi e dei corrieri in diligenza, rettilinee, inzuppate di sudore e coperte di polvere farinosa, orlate da filari di pioppi giganteschi le cui fronde, frementi di luci sotto il gioco del vento, accoglievano i falchi al ritorno dai loro voli. Erano, questa strade, i palpiti di un grande respiro che gli assurdi pali di confine, spuntati di fresco dal suolo, non riuscivano a soffocare; e si perdevano quietamente verso le lontananze…”

La fantastica Teskovina, il paese immaginario (ma non tanto) dell’Ermellino ovvero la Bucovina, è il cuore, il concentrato della babele absburgica, della sua concreta carnalità e iridescente irrealtà che risplende come il fradicio legno della favola, così luminoso e fosforescente la notte, ma che al mattino si rivela putrescente, splendore del marciume. Cernopol-Czernowitz, scrive Rezzori, è ex capitale dell’ex ducato di Bucovina, ceduta dall’ex impero ottomano all’ex impero absburgico e compresa nell’ex regno di Galizia, successivamente uno degli ex paesi della corona degli Asburgo, poi città ex romena e ex sovietica. Un mondo favoloso, un crogiolo di straordinaria cultura austro-tedesco-rumeno-ucraina e sopratutto ebraica, oltre a componenti numericamente minori. Un mondo da cui è uscita una straordinaria letteratura: Paul Celan, incarnazione e autodistruzione di quell’assoluto cui Rezzori si è sottratto con l’eleganza di un ballerino che in una sala affollata scansa per un pelo le coppie travolte dal ritmo; tanti scrittori e mediatori di cultura e umanità “hinternazionale”; figure eclettiche come Klara Blum, ebrea tedesca militante comunista a Vienna, a Mosca e in Cina, dove lotta per la rivoluzione, fonda la germanistica cinese, cerca per tutta la vita il marito cinese scomparso nelle purghe di Stalin e resta fedele al comunismo e al maoismo anche dopo esser stata perseguitata dalle Guardie Rosse durante la Rivoluzione culturale; personaggio tragicamente autentico che parrebbe inventato da Rezzori.

La Mitteleuropa è un mondo di ex e un mondo ex, come ha scritto Predrag Matvejević. Scrittore austriaco, Rezzori è divenuto cittadino romeno a quattro anni, nel 1918; più tardi apolide e non solo, come egli diceva scherzando, perché così avrebbe avuto maggiori possibilità di ricevere il Premio Nobel, mai finora concesso, nella rotazione degli Stati e delle Nazioni, a quella nazionalità. “Straniero di professione”, come dice di se stesso l’io narrante nella Morte di mio fratello Abele, e “poliglotta à tout faire”, egli – chi, egli? Lui, l’uomo che abbiamo amato, con la sua passione di lucidare innumerevoli paia di scarpe, oppure lo scrittore di genio oppure l’uno o l’altro dei suoi personaggi o quell’altro che abita in ognuno di noi, coinquilino sfuggente e spesso imbarazzante? – egli è un “Apatride”.

Nella socievolezza mondana del gentiluomo austriaco, che per decenza e per scansare il destino nasconde talora la sua intelligenza dietro la maschera del conte Boby o di qualche esemplare del suo Idiotenführer durch die deutsche Gesellschaft, c’è la tragedia degli Atridi, maledizione e dolore che si ripete nei secoli, terribile e lancinante anche quando è abbassata a livello di caricatura, vacuità mondana o simulazione mediatica. “Il nobile epigono che è in noi, che conosce a memoria e piange in silenzio tutta la storia fin dalle origini” si dice nello splendido Edipo vince a Stalingrado.

Origini impure, falsificazione che coincide con l’inizio; anche quell’indimenticabile “aurora sanguigna e gelida” con le sue “fiamme rossastre, annunciatrici” che sorge, in una grande pagina, il mattino della caccia nell’Edipo, potrebbe essere un effetto speciale di riflettori e luci su un set cinematografico, ma non per questo perde la sua sensuale concretezza e la sua poesia, che è sempre strappata alla messinscena e al malinteso del mondo. Fin dalle origini: nell’Odissea, durante il banchetto dei Feaci in onore di Ulisse, l’aedo canta le sue gesta ed egli piange – il nobile epigono che piange in noi – perché capisce che quelle sue gesta non gli appartengono più; non sono più il suo irripetibile e indicibile vissuto, ma sono già un intrattenimento e un consumo impersonale, la sceneggiatura di un serial di ottima audience.

L’Apatride austriaco è un Atride perché la civiltà austriaca – così antitragica, ironica, barocca – è divenuta una tragedia dopo la sua fine: non nel 1918, ma nel 1938, con l’Anschluss e con un modo di vivere l’Anschluss che Rezzori ha ritratto in quel capolavoro che sono le Memorie di un antisemita. L’io narrante della Morte di mio fratello Abele – che cerca di riscoprire la sua identità nella scrittura, la quale a sua volta è una disseminazione centrifuga – dice di aver perduto la prima metà di se stesso a Vienna e che dovrebbe andare a cercarla là, per non trovarla mai. “Ma spero che Lei capirà se Le dico che l’ho perduta proprio perchè essa è là. Come Vienna nel suo insieme, così anche la mia metà è parte di un patrimonio museale: è dunque assolutamente atemporale, un morto in una città morta. Vienna si è spenta davanti ai miei occhi il 12 marzo del 1938, e con lei il mio, allora vivente, io vissuto. Essi ora si appartengono per l’eternità – ma non appartengono più a me.”

E’ quella la mutilazione della civiltà, dell’io, più grave di quella del braccio che manca a un altro personaggio di quel romanzo; una mutilazione che non è solo l’immane barbarie del nazismo e della Shoah, ma del mondo intero, di tutti gli orrori e violenze che la Shoah riassume alla più alta potenza. La debolezza camaleontica dell’io può essere in certi casi una tecnica di fuga, ma diviene una colpa sul piano morale, quando l’orrore e la violenza esigerebbero un io forte, capace di combattere e anche di perire in questo “buon combattimento”, per citare l’espressione di San Paolo; capace soprattutto di fare scelte ferme e nette, l’evangelico “sì sì, no no”, antitetico a quell’ alternarsi di vero e di falso così affascinante nel signor Tarangolian, ma così involontariamente complice quando sono in gioco la sofferenza, l’umiliazione, la cancellazione umana, lo sterminio.

Grisha sa di non esser stato un eroe e di condividere questa passività – questa “incolpevolezza” colpevole, direbbe Broch – con milioni di attori secondari della tragedia (con molti di noi), innocenti perché non hanno fatto alcun male, di cui hanno sempre avuto orrore, e non si sono nemmeno macchiati di alcuna piccola viltà, ma colpevoli perchè non hanno – non abbiamo -affrontato a mani nude il Leviatano, il che ha reso possibile che esso sguazzasse nel suo mattatoio. Ripetutamente e soprattutto nei suoi ultimi testi di ricordi (relativamente e, com’egli dice, “inattendibilmente” autobiografici) – Tracce nella neve, Mir zur Spur, Greisengemurmel – Rezzori fa i conti con questo fenomeno. Li fa a fondo e insieme con una schivante reticenza dinanzi al Male trionfante, reticenza che è sua e di tutta una generazione; lo fa senza sensi di colpa – perchè sa che si tratta di un fatto epocale, di cui egli è un epifenomeno – e senza alcuna retorica umanitaria antinazista, alibi troppo comodo per chi autenticamente, fin dalla sua infanzia absburgica ignara di ciò che sarebbe successo dopo, si è sentito lontano dai tedeschi, un alieno in Germania. Ma lo fa con un’assoluta lucidità che mette a nudo, in se stesso e negli altri, quel meccanismo di un’oggettiva – ancorchè passiva , sdegnata e innocente – complicità con l’orrore.

Se negli scritti autobiografici o pseudoautobiografici tutto ciò emerge con illuminante chiarezza, nelle geniali Memorie di un antisemita (talora prese sconsideratamente per ricordi autobiografici, come ricorda il suo più grande interprete, Andrea Landolfi), la loro rielaborazione fantastica in un capolavoro creativo fa capire, come pochi altri testi, come quell’ orrore abbia potuto succedere e non trovare vera resistenza in tante persone di retto sentire, amiche o innamorate di ebrei ed ebree, ammiratrici della grandiosa civiltà ebraica di cui si sentivano pure partecipi e da cui erano affascinati, mai capaci di commettere e nemmeno di immaginare violenze contro gli ebrei eppure intrise di quei (magari di per sé innocui o quasi) pregiudizi antiebraici, di quel sentimento della diversità ebraica torbido anche solo per una sfumatura che finivano per costituire un humus che di per sé non avrebbe mai generato Auschwitz, ma in cui i semi di Auschwitz trovavano un terreno in cui poter prosperare.

Rezzori è ben consapevole di affondare anch’egli, in piccola parte, in quell’humus. Nelle Memorie di un antisemita l’antisemitismo dell’io che rammemora viene ritratto in una sua inquietante spontaneità, quasi innocente perchè naturale e quindi tanto più oggettivamente compromessa. E’ ovvio che l’io narrante delle Memorie è un personaggio fittizio, inventato, e non certo l’autore. Ma è un grande personaggio proprio perchè l’autore ha avuto il coraggio di attribuirgli delle latenze, dei pregiudizi sommersi e sepolti, delle sfumature recondite che caratterizzano tutta una generazione, una classe, una cultura cui anch’egli appartiene e che dunque riguardano pure lui, sebbene solo in quanto esponente di quel mondo, che non è in grado di rompere con quel mondo pur vedendone la bassezza e dunque sa di avere anche in se stesso un’ombra di quella bassezza che pure denuncia e disprezza, habitué del bar di Charley a Berlino e frequentatore della jeunesse doreé di Cernopol, che non sono proprio centri di di resistenza – habitué ironico e anche sprezzante, ma pur sempre habitué.

Ma Rezzori lo sa e lo mette a nudo ed è in questo che consiste il grande contributo morale che, più che salvare lui stesso, contribuisce a salvare gli altri perchè li aiuta a capire – premessa necessaria – ciò che devono combattere. Chiusano, suo grande ammiratore, ha sottolineato la componente morale della scrittura di Rezzori, che spesso gioca con la dimensione frivola e superficiale dell’esistenza. Grisha possiede una qualità che non è molto frequente e che costituisce la poesia delle sue pagine più belle: il disincanto, la consapevolezza. Credo non abbia disdegnato di giocare talvolta, nella vita, da flambeur, con carte false, se proprio era necessario, ma sempre rendendosene conto e non mentendo mai a se stesso , come fanno quasi tutti; “Tu puoi darla ad intendere agli altri”, gli ho detto una sera a Monaco dopo aver visto insieme a lui, a teatro, il grande Charlie Rivel e la melanconia della sua irresistibile comicità, “ma non a te stesso; se pecchi, sai di peccare e non elabori – come si tende spesso a fare – ideologie e teorie per indorare la pillola e giustificare i tuoi errori”. Forse anche per questo, mi è sembrato talora di sentire in lui – nonostante la differenza degli anni, delle abitudini e dei valori – un amico e un complice, un compagno di scuola. Del resto i personaggi dell’Ermellino erano diventati, per me e i miei amici a Trieste quando eravamo molto giovani, delle figure emblematiche, delle categorie in base alle quali classificare le persone: dicevamo, per esempio, quello là è un Turturiuk, quell’altro un Petrescu..

Questa immedesimazione con la futilità, che implica l’oggettivo ritratto della sua potenziale malvagità – di quella banalità prossima al male, direbbe Hannah Arendt – riguarda sia la vita sia la scrittura, la loro contiguità e la loro differenza, le loro frontiere sfumate e talora invalicabili. Il bar di Charley, l’Olimpo degli snob berlinesi, mirabilmente ritratto nell’Edipo, è un mondo nel quale non solo il barone Traugott von Jassilkowski, ma anche l’autore rischia di immedesimarsi, indossando e deponendo diverse personalità, come fossero dei vestiti che la moda detta al viveur. C’è in Rezzori qualcosa del fascino intenso ma cedevole e compromissorio della Venezia di cui egli parla in un suo racconto, una connivenza che insinua in certe sua pagine un tono brillante da conversazione salottiera. Il commosso e doloroso poeta dell’Ermellino, dell’Edipo e delle Memorie coabita non solo con l’affascinante ma debordante scrittore dell’Abele, ma anche col causeur troppo spiritoso di pagine disinvolte, come le novelle In gehobenen Kreisen e altre, comprese parecchie storie maghrebiniche.

Ma, com’egli ha detto in quel nostro dialogo, “l’impegno morale, per uno scrittore, non è altro che l’onestà, esprimere se stessi, testimoniare e non predicare, mostrare le cose piuttosto che suggerire o imporre una presa di posizione. Per uno scrittore, il giudizio deve scaturire dalla rappresentazione e non dev’essere appiccicato dall’esterno.” Ed è questo che egli ha saputo fare mirabilmente con l’Edipo e soprattutto con le Memorie di un antisemita, un libro fondamentale per capire concretamente, fisicamente, sulla pelle, la lontana, apparentemente innocua genesi del Male per eccellenza. L’io narrante che, perplesso e sconcertato, si accoda al corteo che a Vienna festeggia l’Anschluss è un memorabile ritratto che spiega come potesse allora avvenire quello che avvenne. Come dice nell’Ermellino Madame Aritonović alla piccola Tanja, “non ti chiedo di approvare tutto questo, ti chiedo solo di capire..”

Questo io cerca la parte perduta di sé, che crede di sentire da qualche parte, come Nagel, un personaggio dell’Abele, ha la sensazione di muovere le dita della sua mano destra, amputata insieme a tutto il braccio che gli manca. La cerca “dove solo è dato cercarla: per terre, paesaggi, nuvole, città – sissignore, sono soprattutto le città che a volte, con le loro luci, odori e rumori, colori, forme, umori fanno rinascere in me l’insieme degli umori, forme, colori, rumori, odori, effetti di luce di un’epoca intera (repentinamente: in modo doloroso e insieme rasserenante, e purtroppo solo per brevissimi e fuggevoli istanti)”.

Anche in questo ci siamo incontrati in una affinità elettiva, perchè credo anch’io che il mondo sia uno specchio del nostro volto e che, attraversandolo, lasciamo pezzi di noi stessi in luoghi e paesaggi, ma anche nel cuore e negli occhi di alcune persone, come brandelli di un vestito strappato da arbusti spinosi durante una corsa in fuga. Lo ha detto meglio di ogni altro Borges, in una parabola che ho scelto quale epigrafe dei miei Microcosmi, nei quali, come in Danubio, l’io si cerca, si trova, si dissolve nei luoghi della sua odissea: «Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».

In uno dei libri di ricordi di Rezzori, Tracce sulla neve, il sottotitolo dice “Ritratti per un’autobiografia che non scriverò mai”. L’io si cerca nei ritratti di altri, nelle cose, nelle storie accadute, più che a lui, intorno a lui. E’ l’unica forma autentica di parlare di sè; solo attraverso ciò che raccontiamo di altri, amici o amiche o nemici, paesaggi, eventi, vicende capitate poco importa a chi, animali, guerre, morti, dolori, passioni nostre o altrui, si può far capire qualcosa di ciò che siamo, i nostri amori i nostri dèi le nostre fobie le nostre ossessioni.

E’ nella sua ultima opera, nel romanzo Kain, che Rezzori porta al culmine questo gioco di specchi fra l’io e gli altri, con quei tre personaggi che dicono “io” – osserva Landolfi – e con la contaminazione di romanzo non finito e soggetto cinematografico inesistente, balletto sorridente di profondo dolore. Romanzo come costruzione o decostruzione? E’ difficile dire quale delle due sia la forma più alta. Nell’ Ermellino il signor Tarangolian rivolge una lode a una foglia d’ acero appassita e trasformata in un’incantevole filigrana di nervature e venature finissime: quella foglia è la paradossale idea e verità di se stessa, è la suprema bellezza, l’ essenza dell’ arte, ma quell’ arte è il risultato della distruzione. “Ah – esclama il prefetto – ah, vi dico, imparate ad amare la distruzione!”

Il continuo spostamento e aggiustamento di prospettive e di quinte del palcoscenico è una tecnica di sottrazione e quindi di resistenza all’ astrazione che sempre più risucchia l’io, la cui unica professione può essere quella di “contemporaneo, comparsa in un dramma con l’epilogo ignoto. Una mezza dozzina di registi, venti milioni di suggeritori”. La scrittura si addentra in questa impersonalità, estraendola dall’ indistinto ma anche contribuendo a fare dell’ io un anonimo fascio di percezioni. Quando, nell’ Edipo, il barone Traugott si accinge a redigere il suo articolo di moda, fissa “i fogli vergini del blocco con quel vuoto mentale pieno di tensione, che la creatività letteraria è in grado di suscitare per attrarre dalle profondità della sensibilità artistica il suono gradevole delle prime frasi così determinanti. E’ bene che Lei sappia che questo è uno stato di completa estraniazione […]  come se gli organi sensori si svuotassero e tornassero quindi a rinchiudersi in se stessi; cosa che Lei può immaginare come un ampliamento della personalità in una cavità di tenera carne, dentro la quale i sensi, eccitati al massimo, tastano cautamente, come fasci di esperte antenne di lumache. Le visioni sognanti e melodiose passano attraverso questo allettante vuoto interiore come le ninfe del Reno sul palcoscenico dell’ opera, mentre tra esse ribolle la materia, fusa in un amalgama grezzo, spinta qua e là da tentacoli lenti e fluttuanti, analizzata, selezionata, soppesata e scartata. L’ autore vi viene aggiunto e incorporato come un lievito, senza che lo voglia, e abbandonato in balia dell’ operazione che si compie.”

Rezzori, ha scritto Marino Freschi, trasforma la Mitteleuropea in lingua. La vecchia Austria, paesaggio dell’artificio, montaggio di citazioni e soprattutto anacronismo, ha dato a Rezzori il senso del mondo come “malinteso” e soprattutto di una “sfera intermedia della realtà [..] quella strana luce d’acquario in cui vivevamo e non vivevamo, che era tempo, ma non il nostro tempo…”

Quel tempo non suo è anche non nostro eppure nostro: quello di questi anni, di oggi, di quella trasformazione del mondo che appena ora sta realizzandosi, esasperando quel “delirio di molti” che, secondo Musil, è il nostro essere. E Rezzori, l’epigono dell’inesistente e pur carnosa Teskovina, è il precursore di ciò che il mondo occidentale sta divenendo e vivendo appena adesso, in una metamorfosi della società che investe sentimenti, valori, giudizi e l’uomo stesso, la sua natura, la sua sostanza fisica, facendolo divenire veramente un altro – il nietzscheano “oltre-uomo”, un nuovo stadio antropologico oltre le frontiere dell’individuo umanistico, dell’io millenario. Le cose stesse, l’oggettività del mondo, sembrano dissolversi; è stato detto che gli astratti e immateriali bit stanno sostituendo gli atomi, la realtà corporea, fisica; l’esperienza sembra appartenere a tutti e a nessuno, l’io sembra spezzarsi in frammenti e sembra riproducibile a piacere. La virtualità sostituisce la realtà, in un processo che cambia i sentimenti, le percezioni dell’individuo e dunque la sua natura, cambiando la sua storia e i modi di raccontarla. Forse avviene, in tempi molto più rapidi di quanto accadeva nei millenni e nei secoli precedenti, una mutazione antropologica, che produce un nuovo, ancora sconosciuto tipo d’uomo, intaccato nella sua unità, generico e interscambiabile, simile alle figure antiche del mito, che sono e non sono individui, che sono tutti e nessuno.

Rezzori è il poeta di un’ astratta ”sfera intermedia della realtà“che è anche quella in cui ci muoviamo oggi; il bazar di Cernopol è pure una bottega artigianale in cui si costruiscono, senza crederci troppo, i replicanti ormai dominatori di una civiltà mondiale, la cui capitale non è Cernopol né Vienna ma piuttosto New York – la “New York, New York!”, familiare a Rezzori non meno delle altre due e forse, sotto sotto, non tanto dissimile da esse, nella seduzione del suo autorappresentarsi. Un’immortalità digitale e una clonazione impersonale sono inutilmente promesse a tutti e vale oggi, per noi, quello che lo scrittore scrive nell’Edipo: “Nessuno di noi morirà mai, stia tranquillo. E come potrebbe? Infatti noi non esistiamo affatto, egregio amico”.

Il bar di Charley, cuore degli snob berlinesi e della loro vita futile negli anni fra le due guerre, diviene così lo specchio del nostro effimero, e di quell’irrealtà che si è fatta e si va facendo sempre più palpabile, realtà che esiste solo nelle sue immagini moltiplicate nei giornali e sugli schermi televisivi, subito sparite e sostituite ma anche conservate in eterno, contenute in un dischetto; immortalità garantita dall’effimero, universo e vite custodite non nell’infinita memoria di Dio ma in una chiave del sistema informatico, tutta l’enciclopedia dei morti (dei vivi morti) di Danilo Kiš in un paio di centimetri cubi.

La fatuità della moda e l’erotismo più fuggevole diventano lo struggente autoinganno per reggere a questa insostenibile fugacità,mentre da qualche parte già ribolle la lava che coprirà e irrigidirà ogni cosa. Non resta che imbrogliare con la futilità – e se necessario con la superficialità – la malinconia che stringe il cuore, la solitudine dolorosa, il nulla che risucchia ogni cosa, il buio vuoto della notte in cui “il festone dei giorni pendeva come carta variopinta e sgualcita”. Che cosa promette o minaccia l’insipida canzonetta che passa nell’aria? “Fior di sambuco, fiore di rosa, quando vedo la mia sposa..” In questa devastazione del cuore, la cura meticolosa e appassionata per una stupida cravatta può assomigliare alle follie amorose per una top model come Gloria, narrata – rievocata, inventata? L’autore ha sempre proclamato la propria “inattendibilità” – da Rezzori nelle memorie intitolate Mir auf der Spur, bellissima, artificiale e tragica nella fragilità dell’artificio e della convenzionalità da star che inutilmente protegge tale fragilità. Rezzori è un intenso poeta dell’eros nelle sue varie sfaccettature, dal sesso brutalmente immediato a quello anche comicamente perverso, dalla fugace avventura che ha pure in sè l’eternità dell’istante alla tenerezza profonda dell’esistenza condivisa, dalle piccole e ribalde doppiezze a quella perdizione nostalgica e totale che assomiglia alla morte, perché sempre accompagnata, nella sua esigenza di totalità, dalla coscienza della sua trafiggente incompiutezza, dalla consapevolezza che – si dice nell’Abele – “l’incontro di due esseri è come il cozzare di due palle da biliardo: è sempre soltanto un punto dell’una che tocca un punto dell’altra”.

L’amore – quello brevissimo come quello che dura una vita – è nostalgia di salvare l’esistenza dal suo scorrere nel nulla, come quando il signor Tarangolian, prima di partire, lascia che i suoi occhi errino sulle cose e sui volti per assorbirne la visione, per collocare quei punti in un sistema geometrico di cui la sua memoria possa servirsi come di un simbolo stenografico, finchè tutta la realtà della stanza sembra confluire e condensarsi nella punta infuocata del sigaro.

Ma se l’eros confina platonicamente col nulla, esso è anche elemento di concretezza; la pagina di Rezzori si fa corposa, sanguigna e terrigna quando sono in gioco la carne, le cose, gli odori, i corpi, la fame, il desiderio, gli oggetti da tenere in mano come i fucili nelle indimenticabili pagine di caccia. La sensualità, garante del tangibile e di tutte le sue complicazioni esaltanti e disastrose, è la chiave della vita, verità che l’ebraismo conosce meglio di ogni altra cultura: “Voi gojim cercate sempre di vivere come se non ci aveste il cazzo e le vostre femmine non ci avessero la fica, tra le gambe”, dice Wolf nelle Memorie di un antisemita. Se nella Morte di mio fratello Abele l’io si disgrega anche e soprattutto cercando di scrivere la propria disgregazione – in un naufragio che risucchia il romanzo medesimo – il sesso, diversamente dalla scrittura, dà sostanza – sia pure per poco – alle cose e alle persone che le maneggiano.

Il protagonista dell’Abele si disgrega perché cerca, con la scrittura, di far ordine. Quest’ultimo è mortale. Infatti anche Tildy, nell’Ermellino, “vuol ristabilire l’ordine intorno a sè”, ma ogni ordine assomiglia e conduce alla morte, così come le uniformi colonne di soldati – nel grande capitolo sull’esercito tedesco – si sbandano durante la battaglia per poi ricomporsi nella perfetta simmetria delle croci allineate nei cimiteri.

Anche l’amore assoluto, l’amore–perditio, è mortale. E’ il tentativo di vincere la solitudine, di raggiungere il rapporto totale e non solo l’unico punto d’incontro fra le palle di biliardo; di raggiungere l’infinito, ossia la distruzione. Lo scampo, per Rezzori poco amico dell’assoluto, risiede “nell’asintotico. Accostarsi il più possibile alle curve iperboliche eternamente ostili della tesi e dell’antitesi, senza mai identificarsi con una delle due; spostare l’evidenza all’infinito…”

L’amore annienta. La persona, come dice l’etimologia risalente al teatro antico, è una maschera; Tildy precipita quando oltre e dietro la maschera di Mititika Pjowarciuk, la prostituta rutena, intravede il nulla. Tildy s’innamora di Mititika e l’amore lo sottrae al particolare – al suo saldo decalogo di valori e di forme – per volgerlo all’universale e cioè alla morte. L’amore permette l’agnizione definitiva, che spalanca un vuoto dietro la maschera di Mititika e dietro i volti possibili che quella maschera lascia balenare. Tildy si getta in quell’abisso, che gli si apre oltre gli incantevoli e smarriti occhi miopi della ragazza, per trovare il nucleo profondo e nascosto del suo io, la verità dell’essere. Ma l’essere stesso è una maschera, un nulla senza fondo. Se non si vuol soffrire in prigionia, pensa Tildy, bisogna amare la propria prigione, le forme che ci tengono prigionieri. Ma è troppo tardi; l’eroe della forma si abbandona all’universale, all’amore, all’informe e si annienta, “perde la propria faccia”. Il tram che lo schiaccia, riducendolo a poltiglia, suggella quest’irrisione che la vita infligge alla sua passione, la “sublime banalità della morte” che corona il suo tentativo di “inserire un viso nella cornice della maschera”.

Il fascino di Rezzori è anche il sorriso col quale “l’impotenza dilagante e catastrofica del mitteleuropeo” glissa elegantemente su se stessa. La sua amicizia è un grande dono che ho avuto e sono fiero che egli mi abbia dedicato uno dei suoi più bei racconti, Skutschno, in cui c’è un personaggio, il dottor Stiassny, che discende dal signor Tarangolian dell’Ermellino, da me tanto amato, e che forse è nato pure da certi nostri discorsi non so più se a Vienna, a Trieste, a Monaco o a New York. L’ho conosciuto nel ’65, a Roma. Lui teneva una conferenza, anzi una lettura di alcune pagine al Goethe Institut, in via del Corso; era come si dice una bella serata, tante persone del bel mondo e del mondo della cultura e sono arrivato in divisa di soldato semplice, perché stavo facendo il servizio militare a Roma e, sebbene avessi già pubblicato il Mito absburgico, non ero neanche caporale. Ricordo anche l’imbarazzo di un generale, che non sapeva se darmi del tu, come si usava con i soldati da parte degli ufficiali, o trattarmi con più rispetto, e intanto stava zitto mentre noi parlavamo in tedesco. Poi, siccome dovevo rientrare in caserma, mi ha fatto accompagnare con la sua macchina, una di quelle grandi macchine blu del comando con la bandierina, e in caserma, da dove ero uscito poche ore prima, dopo aver ramazzato la camerata, mi hanno visto tornare con l’autista del generale… come Cenerentola a mezzanotte, anche se saranno state le nove e mezzo. Potrebbe quasi essere una delle storie maghrebiniche di Grisha.

Potrei ricordare tante cose, confidenze, complicità, solidarietà sanamente un po’ canagliesche; lui sempre col suo grande stile, anche nelle debolezze o in occasioni buffe. Un pranzo a casa mia a Trieste, con lui e con alcuni suoi conoscenti aristocratici, dai quali eravamo stati a cena il giorno prima, e il risotto di Marisa che, come lui ammise, aveva battuto largamente la cucina nobiliare, piccola vittoria della borghesia sull’aristocrazia. Ricordo un convegno di Alpbach del 1977. Rezzori, in una tavola rotonda, sedeva accanto a tre ritrosi e aggressivi autori d’avanguardia del gruppo di Graz, tre ottimi scrittori. Autentici e sfacciati nella loro provocatoria e sofferta sincerità, parlavano di arte e di infelicità, ostentavano il dramma del loro lavoro e parodiavano beffardamente l’istituzione culturale che in quel momento li celebrava. Rezzori sedeva in disparte, accettava sorridendo d’essere trascurato dal pubblico a favore dei tre giovani poeti sperimentali. Alla loro adolescenza irrisolta ed autentica opponeva l’incredula saggezza di chi prende poco sul serio il mondo e anzitutto se stesso, la risolta malinconia di chi vive nell’inautentico e sa talvolta esprimerlo.

Affabile, noncurante e distaccato, Grisha diceva qualche frase convenzionalmente cortese che non riguardava mai la sua persona e la sua opera, dissimulava la propria intelligenza poetica anziché ostentarla. Se si fosse trovato a un tavolo da gioco o a una festa, anziché a una tavola rotonda, probabilmente avrebbe sbancato a poker gli altri tre o avrebbe corteggiato da maestro le loro amiche. Intanto il pubblico rivolgeva ai tre negatori della letteratura tradizionale le domande sull’ispirazione, sulla poesia, sulla creazione artistica. L’aureola del poeta aleggiava, nella sala, intorno agli interpreti della contestazione; le muse baciavano l’istantanea, ingenua e proterva proposta della poesia che, bruciandosi nell’attimo, crede di mutare la realtà, non il cinico e rassegnato struggimento del narratore che, anche se la sua parola giunge a durare un po’ di più, non ritiene che ciò salvi il mondo. I tre rappresentavano l’aspra arroganza della purezza, Rezzori la saggezza persuasa che ogni cosa, nella vita, si concluda e si risolva – come disse egli stesso in un’altra occasione – nel mero passare del tempo. Come si dice nell’Edipo? “Ah, realtà!”