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PERCHÉ SCRIVERE?

Zadie Smith

15 Giugno 2011

Non vi preoccupate: so come ci si sente. Sono stata a tante conferenze tenute da scrittori. Spesso la sala è grande e piena di spifferi, e le sedie non sono comode come quelle che avete a casa; c’è una lunga introduzione – specie se la conferenza si tiene in Italia – e poi uno scrittore sale sul podio, con l’aria a volte timida, a volte molto sicura di sé, ma sempre con la bocca un po’ troppo vicina al microfono. Il riverbero stride: lo sentite fin dentro i molari. Esaminate lo scrittore. È proprio come ve l’aspettavate, oppure totalmente diverso da come ve l’aspettavate, e pensare a questo vi porta via qualche minuto, ma intanto la conferenza è iniziata: e voi vi siete persi il titolo, vi siete persi l’argomento, sentite qualche verso di poesia in lingua straniera sfiorarvi le orecchie… La barca ha lasciato il porto e voi siete rimasti a terra, impotenti. Vi guardate le unghie. Guardate lo scrittore. Sta dicendo qualcosa a proposito della scrittura, che supera i confini e plasma le identità, o che ignora i confini e non ha identità. In mano tiene un mazzetto di fogli tremanti di cui ora tentate rapidamente di calcolare lo spessore. Dà l’idea di essere una cosa lunga – tremendamente lunga. Vi aspettano quarantacinque minuti – forse perfino un’ora intera – senza speranza di un bicchiere di vino, e nemmeno di un semplice biscotto. Insomma, si protrarrà questa sfilata fino al giorno del giudizio?[1]{C}

Probabilmente sì. La “conferenza sulla scrittura” è una cosa insidiosa: attira le frottole. È al tempo stesso qualcosa di troppo ampio e di troppo strettamente autoreferenziale: alla fine dell’ora è facile che ci siamo convinti che per una nazione la scrittura sia più vitale della produzione di cibo, e che gli scrittori in sé siano un incrocio fra martire, insegnante, politico, uomo del popolo, predicatore e santo. Quando mi trovo nel pubblico, in queste occasioni, mi stupisco sempre di quanta tolleranza abbiano i lettori verso simili discorsi. In un’epoca in cui quasi nessun ruolo umano è immune dall’essere svuotato di senso, fatto oggetto di ironia e sminuito, è strano che il titolo di “scrittore” continui a esercitare tanto fascino su tanta gente. Come si spiega? Vorrei arrivarci fra un po’: ma prima preferirei, se non vi dispiace, tenervi ancora nella mia archetipica sala conferenze, con il pubblico che cambia leggermente posizione sulle sedie pieghevoli e lo scrittore a cui tremano le mani. In genere, in mezzo al pubblico ci sono diversi altri scrittori: amici di quello che parla, magari, o colleghi invitati allo stesso festival. Si riconoscono subito: non alzano mai lo sguardo. Il semplice titolo della conferenza gli è bastato. Perché scrivere? Perché scrivere? Il massimo che possono fare è starsene lì seduti e lasciare che il discorso gli entri da un orecchio e gli esca dall’altro – con tutte quelle idee nobili, ottimistiche, assolutamente intollerabili. Mentre gli studenti si appuntano le frasi a effetto, gli scrittori studiano con attenzione le mattonelle del pavimento fino a mandarne il disegno a memoria. E alla fine della conferenza tornano a casa e si mettono davanti al computer, dove li aspettano, pazienti come la morte, alcune immancabili sensazioni negative –sensibilmente assenti dal discorso appena ascoltato. Un senso di inutilità. Di ridondanza. Di assurdità. Non proprio di disperazione: “disperazione” è proprio il tipo di parola che gli scrittori usano nelle conferenze; se non altro ha una certa grandiosità. “Quando mi siedo davanti al computer, mi coglie la disperazione!” è una cosa molto letteraria da dire. “Quando mi siedo davanti al computer mi sento inutile” è, secondo me, un’affermazione po’ più vicina alla verità. Perché ci sono poche cose che possano far sentire più ridicoli, in questo anno del signore 2011, del sedersi a tavolino a scrivere un romanzo. No, in realtà eccone una: sedersi a tavolino a scrivere una poesia. Il ruolo dello scrittore è diventato assurdo. Forse i lettori non se ne sono ancora accorti, ma gli scrittori lo avvertono intensamente. Conosco un poeta che, se gli si chiede cosa fa nella vita, risponde “l’avvocato” anche se non lavora come avvocato da più di dieci anni. Gli sembra che starsene in una stanza di Londra, nel 2011, e dire “Faccio il poeta” sia come dire “Accendo i lampioni a gas” o “Sono il banditore del villaggio”. Mi rendo conto che parecchia gente, animata dalle migliori intenzioni, tira in ballo la massiccia diffusione dei festival letterari e sostiene che dimostri il perdurare della rilevanza di questa figura culturale, “lo Scrittore”: ed è gentile e generoso, da parte loro. Ma l’ascesa dei festival letterari è soltanto proporzionale alla nostra assurdità: quando quello dello Scrittore era un ruolo veramente serio, gli scrittori non avevano alcun bisogno di viaggiare per il mondo parlando della “scrittura”; ora che siamo assurdi, dobbiamo parlare continuamente del nostro essere scrittori: è il solo modo per convincerci che esistiamo.

Poveri scrittori del ventunesimo secolo! Certo, è tipico degli scrittori di tutti i secoli autocommiserarsi e pensare che la loro situazione, qualunque sia, non abbia eguali. Mentre scrivevo questa conferenza ho cercato di chiedermi onestamente se quello che a pelle mi sembra vero sia in effetti vero: è più difficile scrivere oggi di quanto lo fosse un tempo? Abbiamo motivi particolari per lamentarci? Ci sembra di sì: Melville aveva un sacco di grane con i suoi editori, ma non si trovava a fronteggiare l’imminente scomparsa del diritto d’autore; Keats è stato bersaglio degli strali di parecchi critici, ma non ha mai dovuto vedersela con metà di internet che gli dava del coglione; Emily Brontë ha faticato a trovare un pubblico, ma non era in competizione con l’industria dell’intrattenimento audiovisivo globale, cinema, televisione, videogiochi online, iPod, iPad e telefonini superaccessoriati carichi di distrazioni da due minuti quante ne bastano per una vita intera. Quelle con cui abbiamo a che fare noi sono senz’altro delle circostanze particolarmente sconfortanti, no? Ma poi, se uno comincia a fare un po’ di ricerche, a origliare negli archivi, si ritrova in una sala riecheggiante di lamentele. Perché gli scrittori si sentono sempre trascurati. Rimpiangono sempre una mitica età dell’oro, appena passata, in cui potevano essere scrittori nel senso nobile del termine, o quantomeno in un senso più nobile. Pope rimpiangeva l’epoca di Orazio. Henry James rimpiangeva l’epoca di Jane Austen. Noi scrittori del ventunesimo secolo idealizziamo disperatamente il modernismo, che a posteriori ci sembra un periodo in cui si poteva scrivere un libro così rivoluzionario che bisognava farlo arrivare clandestinamente in Francia per vederselo pubblicare. Eppure anche Virginia Woolf, vissuta durante quello straordinario periodo, provava la stessa forma di “invidia storica” e descrive in maniera precisa questo circolo di illusioni nel suo saggio La narrativa moderna: “Non veniamo per scrivere meglio: l’unica cosa che si può dire è che continuiamo a muoverci, ora un po’ in una direzione, ora in un’altra, ma con una tendenza alla circolarità, se si guardasse il tracciato del percorso da un punto di vista abbastanza elevato. Inutile dire che non pretendiamo di trovarci, anche solo momentaneamente, in quel luogo di osservazione. In piano, tra la folla, mezzo accecati dalla polvere, ci voltiamo indietro a guardare con invidia quei guerrieri più felici che hanno ormai vinto la battaglia e i cui successi hanno ai nostri occhi un’aria di perfezione talmente serena che a stento riusciamo a trattenerci dal sussurrare che per loro la lotta non dev’essere stata così feroce come lo è per noi”.

A posteriori, tutto sembra più facile perché sembra ottenuto senza sforzo, dato che qualunque missione portata a termine assume un’aura di inevitabilità. Quando il poeta del ventunesimo secolo osserva la sua vita letteraria, è probabile che veda una terra desolata di energia mal diretta. Come sta impiegando il suo tempo? Litiga con editori recalcitranti, viene rifiutato dalle riviste, cerca di rivendicare il proprio diritto d’autore calpestato dagli abusi online, si imbarca in una guerra di flame[2] contro un anonimo blogger appassionato di poesia che ha stroncato la sua ultima raccolta e ha un indirizzo IP belga, crea un account Facebook fingendo di essere il proprio fan club, fa lo stesso su Twitter, odia i colleghi suoi pari, invidia i poeti superiori a lui, teme quelli inferiori, si indigna quando un editor gli sollecita l’invio del prossimo manoscritto (gli serve tempo: è un artista!), si mortifica quando un editor non lo fa (se è vivo o morto non importa a nessuno; è un uomo dimenticato; è assurdo!). In confronto, quanto appaiono sereni i versificatori del passato, dedicati com’erano alla propria arte, e solo a quella. Quanto sembrano puri, e centrali per la propria cultura, e convinti del proprio talento. Sembra che non si siano mai posti la domanda “Perché scrivere?” Scrivere gli veniva naturale come respirare, forse perché vivevano in un’epoca in cui metafore come questa non erano tanto abusate da risultare totalmente stantie. Beati loro! Ma è tutta un’illusione, ovviamente. Ce ne offre una bella e utile confutazione l’“Epistola a Arbuthnot”, una poesia di Alexander Pope in confronto alla quale una guerra di flame su internet è l’equivalente di un bisticcio fra due marmocchietti al parco giochi. Ha la forma di una lettera in versi indirizzata a John Arbuthnot, amico e medico personale di Pope, e l’autore la descrive come “una Sorta di Elenco di Rimostranze”, una velenosa risposta in rima a tutti quelli che avevano “attaccato in maniera assolutamente formidabile non solo i miei Scritti […] ma la mia Persona, la mia Morale e la mia Famiglia”. Scritta da un uomo che all’epoca – non ce lo dimentichiamo – godeva di una fama letteraria senza precedenti, è un monumentale esempio di mala grazia, una specie di epico piagnisteo, in cui il poeta del ventunesimo secolo può felicemente veder rispecchiati tutti i propri vizi. Qui si lamenta del fatto che, in quanto autore di successo, a volte gli viene chiesto di leggere le opere di giovani aspiranti scrittori:

Accalappiato e costretto a giudicare, o me tapino!

Che non posso tacere, e non voglio mentire;

Ridere sarebbe mancar di buon cuore e di eleganza,

E restar serio è chieder troppo alla mia faccia.

Seduto con triste decoro, leggo

Con sincera angoscia e la testa che duole;

E lascio cadere infine, ma in orecchie restie,

Il salvifico consiglio: “Fallo riposare nove anni”.

Il quale altro non era che il suggerimento di Orazio: tenere ciò che si è scritto in un cassetto per nove anni, e poi vedere se sembra ancora buono. Ma a quanto pare, quando si dice ai giovani scrittori che fanno pena, ciò non basta a fermarli:

Chi fa vergognare uno scribacchino? Strappagli una tela

E lui tesserà di nuovo quel filo sottile e compiaciuto […]

Troneggia al centro delle sue esili trame;

Orgoglioso di una distesa di righe inconsistenti!

Altrove, Pope dedica un paio di versi a inveire contro l’editore che ha stampato il suo epistolario senza pagarlo, contro i critici per i quali “Fatica, letture, studio, sono solo un paravento / Vogliono solo spirito, buon gusto e buonsenso”, contro i giornalisti che hanno denigrato le basse origini di suo padre (“Incolto, non conosceva la sottile Arte dell’Erudito / E nessuna Lingua, se non quella del cuore”). Neanche gli amici lo sostengono quanto dovrebbero. Joseph Addison, nemico-amico di Pope e co-fondatore dello Spectator, è secondo lui il tipo che “stronca a suon di elogi tiepidi”. (Il modo di dire, ormai entrato nell’uso comune, fu usato per la prima volta da Pope, proprio in questa poesia.) Io questa parentesi la leverei: in italiano non è un modo di dire comune, quindi la parentesi non ha senso. Nel frattempo, gli ammiratori e i lettori appassionati non fanno altro che infastidirlo con le loro importune richieste del suo tempo:

Perché mi si chiede cosa vedrà a breve la luce?

Santo cielo! Son forse nato per scrivere soltanto?

La vita non ha gioie per me? O (a voler essere più seri)

Non ho amici da aiutare, né anime da salvare?

In conclusione, ripensando a tutte le pene che ha dovuto soffrire, Pope si considera un animo decisamente nobile, tutto sommato:

Che non per Fama, ma per il più alto fine di Virtù

Sopportò il furioso Nemico, il timido Amico,

Il Critico spietato, i mezzi elogi dell’Arguto

Il cicisbeo ferito, o che teme esser ferito […]

Le distanti Minacce di Vendetta sul suo capo,

Il colpo mai patito, la Lacrima mai versata […]

La Morale infangata all’uscita degli Scritti;

La Persona calunniata, e la Forma disegnata…

Quella “forma disegnata”, per inciso, è un’allusione alle caricature del piccolo corpo deforme di Pope apparse in varie riviste popolari dell’epoca. Sicuramente una bella umiliazione. (Tanto che Pope mette in epigrafe a questa poesia alcune parole di Cicerone: “Ciò che gli altri dicono di te, lascia che siano affari loro; qualunque cosa sia, la diranno comunque”.) Forse internet non è poi così diverso, per l’ego di uno scrittore, dalla velenosa maldicenza locale della Londra del Seicento, dove non potevi muovere un passo senza che i commentatori arguti e i pamphlettisti strillassero a destra e a manca che eri un gran coglione. Perché scrivere, allora? Se è un gesto così legato all’infelicità? La risposta di Pope suonerà familiare agli scrittori di tutti i tempi e di ogni età. Perché non poteva farne a meno, così come non poteva fare a meno di avere la gobba o di essere basso:

Perché ho scritto? Quale peccato a me sconosciuto

Mi tuffò nell’inchiostro, dei miei genitori o mio?

Fin da bambino, non ancora adescato dalla fama,

Balbettavo metri, perché erano i metri a venire […]

La musa servì solo a persuadere amici, ma non mogli,

Ad assistermi in questa lunga malattia, la vita.

La scrittura sarà pure un’ossessione innata: ma non la si dovrebbe tenere per sempre in quel cassetto oraziano, se non ci piace il trambusto che crea? Chiaramente, Pope ha una risposta anche a questo:

Ma perché allora pubblicare? Granville il cortese,

E l’esperto Walsh mi dicevan che ero bravo;

Il cordiale Garth mi infiammò di precoci lodi,

Congreve amava, e Swift tollerava i miei canti.

È una risposta interessante. Come si fa a sapere con certezza di non essere uno di quegli sciocchi illusi senza speranza “il cui fustagno[3] è di una bruttezza così squisita / da non essere neanche poesia, bensì prosa impazzita”? La risposta, per Pope, sta nell’assicurarsi l’approvazione dei colleghi, che, dando riconoscimento alla sua opera, hanno “a braccia aperte accolto un Poeta ancora. Ciò che più contava per lui era l’opinione degli altri artisti. Più dell’opinione dei lettori, e senz’altro più di quella dei critici, che denigra nella maniera tradizionale, sottolineando che “mai un ramoscello d’alloro” ha adornato la loro fronte.

Insomma: la meschinità, il disprezzo, l’eccessiva preoccupazione per il proprio status, il vittimismo e l’orgoglio sembrano tutti parte integrante del ruolo del poeta, e attraverso i secoli si sono trasmessi senza soluzione di continuità fino alla mia generazione. Eppure un cambiamento c’è stato. La serenità delle epoche passate non è una pura illusione. Pope potrà essere pieno di bile e di rabbia, ma ha anche, nel profondo, un’ontologica sicurezza di sé tipica della sua epoca:

Oh, lasciatemi vivere a modo mio! e così anche morire!

(“Vivere e morire è tutto ciò che ho da fare:”)

Mantenere la Dignità e la Serenità di un Poeta,

E vedere amici e leggere libri a piacimento.

Libero da ogni padrone, benché acconsenta

A volte a chiamare mio Amico un Sacerdote:

Non sono nato per le Corti o i grandi Affari;

Pago i miei debiti, credo, e dico le Preghiere.

Per Pope che il ruolo del “Poeta” stia a significare dignità e serenità è una verità autoevidente, così come la sua spontanea dimestichezza con la poesia e i miti dell’Antichità. È un Poeta con la P maiuscola. Può rifiutare le schizzinose elite di corte perché vive radicato nell’agio socioeconomico della vita del ceto medio inglese, che a sua volta si basa sulla convinzione che questa “nazione di bottegai” – che, nessuno escluso, pagano i debiti con puntualità – sia una nuova Gerusalemme, verde e amabile, e nelle mani di Dio. (L’ultimo verso dell’epistola recita: “Il resto appartiene al Cielo”.) Soprattutto, Pope “crede”. In se stesso, nella sua arte, nella sua vocazione. “Perché scrivere?” La sua risposta è, in buona sostanza, un’olimpica tautologia: perché sono uno scrittore.

Ma: Cos’è uno scrittore? Gregor Von Rezzori – in nome del quale vi parlo questa sera – una volta tenne una conferenza proprio con questo titolo. Anche lui è un esempio affascinante del ruolo dello scrittore. Così come la sua narrativa dipingeva la luce morente di un mondo scomparso – l’impero austro-ungarico della sua infanzia – il personaggio che incarnava come scrittore era una malinconica provocazione: ricordava la passata grandezza di quel mestiere accettandone al tempo stesso la comica futilità nel momento attuale. Aveva un atteggiamento piuttosto diverso da quello del suo quasi contemporaneo ed eroe letterario, Vladimir Nabokov, il quale, quando gli venne chiesto di descrivere la sua posizione nel mondo delle lettere, rispose: “Si gode una splendida vista da quassù…” Nabokov fondamentalmente si esibiva nel ruolo dello scrittore-genio: non concedeva mai un’intervista senza tenere in mano schede con gli appunti, anzi, non pronunciava mai una parola personale, né esprimeva mai una qualunque opinione in maniera improvvisata. Anche Rezzori recitava una parte: quella dello scrittore-dandy, vestito con sartoriale eleganza, magnificamente calzato, spiritoso, aggraziato, cortese. Ma fra le due la versione di Rezzori era la più umana, la più fallibile. Claudio Magris, che mi ha preceduto in questo ruolo di conferenziere, lo descrive perfettamente. Rezzori, dice, possedeva “la risolta malinconia di chi vive nell’inautentico e sa talvolta esprimerlo”. Rezzori si sarà anche vestito come un grande scrittore del secolo precedente, ma si esprimeva come un uomo inautentico del ventesimo secolo, un uomo senza nazione, senza un’identità risolta. Un’anima scettica, che conosce da vicino il fallimento. Cos’è uno scrittore? È un individuo afflitto da “sciami di dubbi: dubbi in se stesso, nel suo talento, nella sua abilità di comprensione, nella sua scelta di un argomento piuttosto che di un altro, nella sua capacità di affrontarlo, e così via”. E benché Rezzori riconosca che “c’è una strana aura di prestigio che circonda noi scrittori, come se avessimo una sorta di potere magico”, la sua natura beffarda e autoironica gli impedisce di credere davvero nel suo ruolo o di goderselo: “Chi è capace di mettere insieme delle lettere dell’alfabeto per farle cantare si trova nella posizione dello stregone – o meglio: nella posizione di una sorta di sacerdote. E gode del prestigio di una sorta di sacerdote. E deve portare il fardello del sacerdozio”.

Tale fardello, per Rezzori, è il fardello della fraudolenza. Penso che sia questo a farlo sentire a volte più vicino allo spirito dei nostri tempi di quanto lo fosse Nabokov. Lo scrittore di Nabokov è il genio impenetrabile, il mago invincibile, che costantemente afferma nella propria persona, per dirla con le sue parole, “il potere dell’arte sulla spazzatura, il trionfo della magia sulla brutalità”. Lo scrittore, per come viene interpretato da Nabokov, è un essere che incute soggezione. Lo scrittore descritto da Rezzori non riesce a prendersi altrettanto sul serio. È come un sacerdote che si mette in piedi di fronte alla sua comunità e compie gli antichi riti, investito, da parte di quelle anime fedeli, di tutta la magia e la sacralità del rituale che sta seguendo – ma per il quale il pane è solo pane e il vino è vino. Per me, il passaggio più commovente di quella conferenza è quando Rezzori testimonia con desolata franchezza l’esperienza di gran parte degli scrittori, un senso di fallimento che Nabokov non ha mai immaginato, o mai ammesso: «Nel profondo del cuore, chiunque abbia dedicato la sua vita alla scrittura sa che, come in ogni altra arte, bisogna essere eccellenti. E se non si è eccellenti – o almeno quasi eccellenti – si è mediocri. E quando si scopre di essere irrimediabilmente mediocri, si prova un dolore che spezza il cuore”.

In un’intervista meravigliosamente digressiva alla rivista BOMB – niente appunti, niente risposte già scritte – Rezzori approfondisce il tema di questo dolore, parlando schiettamente del suo rapporto con Nabokov: “Quando ho collaborato alla traduzione tedesca di Lolita, mi sono reso conto che non avrei mai raggiunto la perizia quasi medievale di Nabokov nel legare la narrativa di invenzione con le allusioni letterarie, e scrivere così un libro su più livelli – uno dei quali è una realtà diretta e concreta, sia pur nel suo essere finzione, dietro cui si nasconde l’altra realtà, la realtà letteraria di tutte le allusioni, di tutte le relazioni della letteratura con altra letteratura. Questo è scoraggiante, ma al tempo stesso pone una bella sfida”. Parte della sfida, per Rezzori, consisteva nel trovare uno spazio letterario che Nabokov non avesse già fatto proprio. Lo trovò ripiegandosi su se stesso: mappando in maniera ossessiva il proprio spazio interiore. Ecco come risponde alla mia domanda (citando peraltro Pope):

Rezzori: Perché scrivo? “Quale peccato a me sconosciuto / Mi tuffò nell’inchiostro, dei miei genitori o mio?” Guardi, immagino che di fatto la scrittura, a livello più o meno consapevole, sia il tentativo di trovare un’identità. Conoscere il segreto dell’“io” che non può mai andare perduto nonostante tutti i cambiamenti che attraversa nel corso di una vita: eccolo già qui il tema nascosto di ogni scrittore, non le pare?

Bomb: La ricerca della voce?

Rezzori: La ricerca della voce. Ma anche la ricerca del segreto della trasformazione, del vivere molte vite in una sola.

È una risposta semplice e onesta. Ha una scala umana. Il termine “identità” viene qui usato in un senso molto più umile di quanto si tenda a fare oggi: non rappresenta nazioni o popoli, ideologie o teorie: rappresenta a malapena se stesso. Perché scrivere? Per scoprire se la persona che diceva “io” a cinque anni e la persona che usa lo stesso pronome a 35, 53 o 78 anni sono in qualche modo legate fra loro: se hanno una continuità, se l’“io” persiste. Pope scrive perché è uno scrittore, perché ci è nato, balbettando metri. Rezzori è un uomo del Novecento: scrive perché non sa con certezza chi è.

Voglio esaminare ora il testo di un’ultima conferenza sulla scrittura. Si intitola “Perché scrivo”, e l’autore è George Orwell. Se il ruolo dello “Scrittore” raggiunge il suo apice con Orazio, scende fino a Pope e viene fatto oggetto di ironia da parte di Nabokov e Rezzori, con Orwell arriva al ground zero. Da lui non ci possiamo aspettare discorsi sulle muse o l’ispirazione, sulla magia e la stregoneria: quel linguaggio è scomparso da un pezzo. Al suo posto sentiamo Orwell parlare in maniera chiara e semplice, con la curiosità classificatoria di un antropologo: “Mettendo da parte la necessità di guadagnarsi da vivere, penso che ci siano quattro grandi motivi per scrivere, o comunque per scrivere prosa. Esistono, in gradi diversi, in ogni scrittore, e in ciascuno scrittore le proporzioni variano col tempo, a seconda dell’atmosfera in cui vive”. Il primo motivo, il mio preferito, vale la pena di ascoltarlo dall’inizio alla fine:

{C}1.     Puro egoismo. Desiderio di apparire intelligente, di far parlare di sé, di essere ricordato dopo la morte, di prendersi la rivincita sugli adulti che ti snobbavano quando eri bambino, e via dicendo. È ipocrita fingere che questo non sia un motivo, e un motivo forte. Gli scrittori condividono questa caratteristica con gli scienziati, gli artisti, i politici, gli avvocati, i soldati, gli uomini d’affari di successo: in breve, con tutta l’elite dell’umanità. La grande massa degli esseri umani non è formata da persone intensamente egoiste. Dall’età di trent’anni in poi, o giù di lì, abbandonano quasi del tutto la sensazione di essere individui: e vivono soprattutto per gli altri, o semplicemente schiacciati sotto il peso di un lavoro abbrutente. Ma c’è anche una minoranza di persone armate di talento e forza di volontà che si ostinano a vivere la propria vita fino alla fine, e gli scrittori appartengono a questa categoria. Gli scrittori seri, vorrei aggiungere, sono in genere più vanitosi ed egocentrici dei giornalisti, benché meno interessati ai soldi.

Dovrebbero stamparlo su delle magliette e distribuirle ai festival letterari. Il secondo motivo Orwell lo chiama “Entusiasmo estetico”, e lo intende sia nel senso della percezione della bellezza del mondo esterno, sia di quella delle parole e della loro giusta disposizione. A suo modo di vedere, questa motivazione estetica si dimostra “assai debole” in molti scrittori, benché raramente del tutto assente. Il terzo motivo è l’“Impulso storico”, definito in senso ampio come il “Desiderio di vedere le cose come stanno, di portare alla luce dati di fatto veri e conservarli a beneficio della posterità”. L’ultimo è lo “Scopo politico”:

Desiderio di spingere il mondo in una certa direzione, di modificare l’altrui concezione del tipo di società alla quale bisogna tendere. […] Nessun libro è autenticamente privo di orientamento politico. L’opinione che l’arte non debba avere nulla a che fare con la politica è essa stessa una posizione politica.

Ciò che mi interessa di questo sistema di classificazione è cercare di capire se in qualche sua parte è ancora valido o meno. Vedo subito un problema con il motivo numero uno: Puro egoismo. Non metto in dubbio la sua esattezza per quanto riguarda gli scrittori. Ma penso che Orwell, se fosse vivo oggi, sarebbe sorpreso nel vedere fino a che punto gli scrittori hanno smesso di essere l’eccezione. La grande massa degli esseri umani di cui parlava, che “abbandonano la sensazione di essere individui” dall’età di trent’anni in poi – è in larga misura scomparsa, almeno nel mondo sviluppato. Ora tutti “si ostinano a vivere la propria vita fino alla fine”, a prescindere dalla loro condizione sociale ed economica. Ora anche quelle che Orwell avrebbe considerato professioni decorose e onorevoli – l’insegnante, l’infermiera – sono viste come lavoro abbrutente. Il desiderio di fama e autorealizzazione (o, più precisamente, di fama da raggiungersi attraverso l’autorealizzazione) è ovunque. E dato che è così, non dovrebbe sorprendere il fatto che quella dello “scrittore” sia diventata una carriera di fantasia. Senz’altro non sono l’unica scrittrice ad aver notato che, quando fa una presentazione in pubblico, la platea non è più piena di lettori. È piena di gente che si identifica con questa parola, “scrittore”. Non sono venuti perché hanno letto il mio libro, o dei libri qualunque. Sono venuti perché io sono una scrittrice e anche loro sono scrittori. Per loro, la scrittura ha ben poco a che fare con la lettura. Viene vista come un’identità, che sembra offrire l’irresistibile e moderna opportunità di fare ciò che sei. Ne consegue, secondo me, che gli scrittori non possono più sperare di definirsi come “persone armate di forza di volontà che si ostinano a vivere la propria vita fino alla fine”. Un tempo era possibile guardare con ammirazione un singolo individuo che si esprimeva con onestà compulsiva in una serie di romanzi: osando scrivere ciò che nessun altro osava dire. Era possibile che un libro come Lamento di Portnoy, per dire, venisse accusato di minacciare il tessuto morale dell’America! Oggi internet è affollata di Roth in miniatura, di gente che vive la propria vita – e parla della propria vita con estrema franchezza: a chiunque la voglia ascoltare. Il “Puro Egoismo” un tempo era una caratteristica vagamente mostruosa che pochi avrebbero ammesso di possedere: adesso è diventato praticamente un diritto umano. Perché scrivere? Perché sono uno scrittore! Be’, lo puoi gridare forte quanto ti pare, forte quanto lo gridava Orwell, ma sappi che intorno a te lo sta gridando chiunque, e avete tutti lo stesso diritto di usare quella parola. Per reazione a questo assalto di massa alla Bastiglia letteraria, alcuni tentano di difendere i loro privilegi appoggiandosi vigorosamente alla parola “pubblicato”, ossia: “Ma io sono uno scrittore pubblicato!” Ma presto la distinzione sarà obsoleta, e comunque è un’argomentazione che regge poco. Molti finti scrittori sono pubblicati, e su internet esistono molti scrittori veri: la contrapposizione non durerà ancora a lungo.

Che dire del secondo motivo, il motivo estetico? In questo trovo sia una ragione per scrivere sia una modesta difesa del ruolo, in particolare nel senso del coltivare un’attenzione alla bellezza “delle parole e della loro giusta disposizione”. Questa idea ha un che di pratico che mi piace; ed è anche una descrizione precisa di cosa significa veramente scrivere, di ciò che comporta veramente questa attività. Il microlavoro della cura per la bellezza e l’efficacia di una frase è un salutare antidoto alle rivendicazioni pseudospirituali con cui a volte si difende l’atto della scrittura, e dell’essere scrittori. Meglio considerarsi artigiani specializzati. In molti sanno assemblare una sedia alla bell’e meglio: capiscono i principi basilari di una sedia. Ma sono in grado di costruire una sedia ben rifinita come la tua? Altrettanto comoda, altrettanto utile, altrettanto sorprendente nello stile e nella struttura? In un mondo in cui chiunque è uno scrittore e chiunque è “pubblicato”, la scrittura deve distinguersi per la sua abilità, per la sua chiarezza e la sua perizia tecnica, e gli scrittori giustificheranno la loro esistenza solo se nel fare il proprio lavoro saranno in grado di ricordarci le vere potenzialità del linguaggio. Online, in televisione, a volte è facile dimenticarsi cos’è veramente una frase corretta, interessante e originale. Può sembrare che questo non sia un ruolo molto nobile o prestigioso per lo scrittore del ventunesimo secolo: forse detto così somiglia un po’ troppo a un lavoro abbrutente. Senza dubbio si arriverà al punto in cui il fatto che hai passato venti minuti a cesellare una frase mentre un altro ha impiegato dieci secondi a metterne insieme una alla bell’e meglio non influirà minimamente sul numero di persone che leggeranno quella frase, su quanto ciascuno di voi verrà pagato per averla scritta, o sull’impatto che la frase avrà sui suoi lettori. In tanti ora leggono così velocemente e con così poca attenzione che si rendono conto a malapena dell’argomento di ciò che leggono, figuriamoci delle sfumature stilistiche. Per continuare a scrivere frasi come un valente artigiano, bisogna votarsi all’assurda idea che valga ancora la pena rallentare, prendersi tutto il tempo che serve, ascoltare e curare le proprie parole. Anche quando si capisce – da qualunque oggettivo segnale del mondo – che non è così.

Pensando a questi problemi è difficile non cadere in un romantico vittimismo o in una stereotipata disperazione. Sto costruendo una sedia che non vuole nessuno! Perfino Philip Roth – che in pratica ha più persone sedute sulle sue sedie di chiunque altro al mondo – guarda al futuro prossimo con poetica rassegnazione:

Credo che diventerà una specie di culto. Penso che la gente continuerà a leggere ma sarà un piccolo gruppo di persone. Forse più di quelle che oggi leggono la poesia latina, ma più o meno in quell’ordine di grandezza… Leggere un romanzo richiede una certa dose di concentrazione, attenzione, devozione verso la lettura. Se per leggere un romanzo uno ci mette più di due settimane, non lo legge davvero. Insomma, credo che quel tipo di concentrazione e attenzione e cura sia difficile da incontrare: è difficile trovare enormi quantità di persone, grandi quantità di persone, notevoli quantità di persone, che abbiano quelle caratteristiche.

Ha ragione, ne sono certa – ma ciò di fatto non ci aiuta a rispondere alla domanda “Perché scrivere?” Queste opinioni compiacciono troppo il vittimismo degli scrittori che, come si è visto, è già abbastanza ampio da solo. No, dobbiamo assumerci un po’ di responsabilità personale. Forse se le nostre sedie non vanno per la maggiore è per altri motivi: magari sembrano superflue, non necessarie. In questo senso il terzo e l’ultimo motivo di Orwell – l’“Impulso storico” e lo “Scopo politico” – offrono la possibilità di costruire una vita da scrittore su basi più solide. Immagino che sia perché danno allo scrittore un’occasione per rendersi utile, o quanto meno per impegnarsi in un dialogo con il mondo circostante, e dunque lo aiutano a superare quel senso schiacciante della propria inutilità che ho cercato di descrivere prima. Il desiderio di vedere le cose come stanno. Questa, per lo scrittore del ventunesimo secolo, mi sembra un’ambizione tutt’altro che piccola. Lo spiegherò con un’analogia. Recentemente, stavo leggendo su internet un articoletto satirico sulla pubblicazione ufficiale del certificato di nascita “integrale” di Obama. Sotto la battuta, un Anonimo aveva commentato: “Una vittoria per i sostenitori della dimostrazione empirica!” Io spero che l’Anonimo sia uno scrittore. Tutti gli scrittori dovrebbero essere fermi ed entusiasti sostenitori della dimostrazione empirica. In questo momento storico, in cui la natura stessa di ciò che costituisce una “prova” viene messa in discussione da chi ritiene che lo scetticismo staccato dal giudizio sia di per sé una virtù, è fondamentale che chi si definisce “Scrittore” faccia lo sforzo di dimostrare, nella propria opera, che è possibile essere scettici e allo stesso tempo possedere una conoscenza vera, leggere fra le righe e anche leggere le righe. Ma ripeto: preparatevi a una bella lotta. Non molto tempo fa ho avuto un’accesa discussione con un ragazzo convinto che nessun aereo abbia mai colpito le torri, e che le torri siano state fatte saltare con la dinamite dal governo americano: opinione abbastanza diffusa nella mia parte di Londra nord. All’inizio mi sembrava molto facile uscirne vincitrice: poi mi sono resa conto di cosa avevo di fronte. Una persona che non credeva ai filmati tv (“Ologrammi!”) e non credeva alla mia lunga descrizione dei retroscena, derivata da Le altissime torri, libro del giornalista investigativo Lawrence Wright (“Chi è Lawrence Wright?”). Di lì a poco mi sono ritrovata a snocciolare disperatamente nomi di riviste autorevoli che il mio interlocutore non aveva mai letto (“Cos’è il New Yorker?”) e di studiosi e università di cui non gli importava niente, e di giornalisti che avevano intervistato Bin Laden per testate che dal suo punto di vista non valevano nulla. Tutte queste “prove” lui le ha radunate per benino sotto la categoria “Media” e le ha liquidate in un batter d’occhio. Ho capito che gli facevo sinceramente pena: “Non crederai mica a tutto quello che dicono i media, vero?” Di base, ero impotente di fronte a lui. “Perché credere che un aereo abbia abbattuto le torri?” si rivela, sul piano ontologico, una domanda molto simile a “Perché credere di essere uno scrittore?” Non si può dare risposta ricorrendo ai canali e ai tramiti accettati in passato: le università, gli organi di informazione, le riviste, le case editrici. Quel ragazzo esprimeva la versione estrema di un calo di fiducia generale: perché credere ai “media” quando sono stati tanto spesso autori di distorsioni e inganni? Perché avere fiducia nelle “università” quando da secoli salvaguardano e promuovono gli interessi e i valori di una minuscola élite? È inutile far notare che c’è differenza fra un giornale e un altro, fra un canale televisivo e un altro, fra un politico e un altro, fra uno studioso o giornalista e un altro. La forma di scetticismo che sto descrivendo è troppo vasta: non si sofferma a dar retta a sottigliezze tipo “indipendente” piuttosto che “proprietà di qualcuno”, “privato” piuttosto che “pubblico” o anche “conservatore” piuttosto che “progressista”. E se vogliamo rispondere, starcene semplicemente all’angolo della strada gridando perché lo dico io non basterà. In un certo senso, dobbiamo sempre ricominciare da zero. Il calo di fiducia è semplicemente troppo grande. Sul piano epistemologico, siamo tornati a un periodo più arretrato, in cui la gente esigeva di avere un incontro in prima persona con la verità prima di accettarla. (“Se non vedo non credo!”) Possiamo rammaricarcene, ma la situazione è questa. Perciò le Hawaii devono disseppellire il certificato di nascita integrale di Obama, e anche uno scrittore a suo modo deve continuare a dimostrare, frase per frase, che appartiene ai sostenitori della dimostrazione empirica. Le biografie in quarta di copertina che ricordano i tuoi titoli universitari, i tuoi master in scrittura creativa o il tempo che hai passato a vivere in mezzo alle scimmie a Katmandu non convinceranno nessuno che sai scrivere, o che hai un motivo per farlo. Perché scrivere? Perché desideri vedere le cose come stanno. Al giorno d’oggi uno scrittore deve fare uno sforzo incredibile per contrastare l’enorme massa di realtà effimere, venali e false che vengono pesantemente proposte alla gente dalla tv e dai giornali, dalle console e dagli iPad. Il che ci riporta all’ultimo motivo citato da Orwell, quello politico, perché sono convinta che l’elusiva sensazione che uno scrittore cerca di provocare nel lettore sia implicitamente politica:

Sì, le cose stanno proprio così.

Sì, mi sento proprio così.

Sì, questa cosa è fatta proprio così.

Sì, questa cosa funziona proprio così.

In un momento in cui siamo circondati da realtà contraffatte, il desiderio di vedere le cose come stanno è già in sé un atto rivoluzionario. È importante sottolineare che vedere lucidamente non significa vedere univocamente: viceversa, sono le realtà contraffatte quelle che tendono a essere lineari e univoche. Un terrorista è questo. Un immigrato è questo. I sostenitori della dimostrazione empirica hanno il dovere di tentare di complicare il racconto: di rappresentare il mondo in tutta la sua incredibile varietà. So che agli scrittori inglesi e americani le argomentazioni di questo tipo possono sembrare pura bigotteria progressista, o un ultimo disperato tentativo di difendere una forma decadente e morta. Ma basta uscire per un attimo dal mondo anglofono per ricordarsi che le forme che noi possiamo ritenere conservatrici hanno ancora, per molti, una grandissima vitalità, e che la differenza di reazione che suscitano non dipende dal contenuto ma dal contesto. Recentemente ho sentito di uno scrittore inglese che, durante una serie di incontri coi lettori nelle scuole cinesi, è rimasto esterrefatto nel vedere che gli studenti trattavano con una certa meraviglia il suo romanzo storico, perché non capivano come gli fosse permesso, di fatto, “scrivere una versione tutta sua della storia”. Io stessa sono rimasta sorpresa nel constatare gli strani usi e interpretazioni a cui i miei articoli o i miei racconti vengono sottoposti man mano che su internet passano da una persona all’altra: acquistano significati che non avrei mai pensato di dargli, o vengono scomposti e inseriti negli scritti altrui, o impiegati per parlare di posti, persone e idee che non ho mai conosciuto o avuto. In questo senso la rete è una grande occasione per quelli a cui sta a cuore “rappresentare il mondo nella sua complessità”: perché ci dà accesso a una parte molto maggiore di mondo. E offre un nuovo modello della vita da scrittori, propone nuovi esempi di collaborazione e interscambio, nuovi modi di togliersi di dosso quel ruolo antico e solitario.

Mi rendo conto che in un certo senso ho fatto tutto il giro e sono tornata all’eroismo e all’astrattezza! Era giusto il mio avvertimento iniziale sulle conferenze degli scrittori: attraggono le frottole. Ma è il caso di precisare, prima di concludere, che quando mi siedo al tavolino a scrivere non spero di distruggere il monolitico complesso industriale capitalistico con la forza della mia penna. Mi sento inutile e assurda. E l’unico modo per mettere un freno a queste sensazioni è ridurre il mio lavoro alla sua unità minima: questa frase. Scrivo per costruire questa frase: per renderla più bella che posso, questa qui e anche la successiva. Io trovo questo semplice mantra molto confortante. È un antidoto all’inutilità. Così come l’elegante spiegazione di Gregor von Rezzori sul valore della scrittura, espresso dal punto di vista dei lettori: “Ha creato una realtà, e la gente ne è toccata”. Ma questo lui è più bravo a dimostrarlo che a spiegarlo, come tutti gli scrittori. Rezzori è al suo meglio quando in Tracce nella neve crea la deliziosa realtà di Cassandra, la sua balia inselvatichita con la faccia da scimmia e quella gigantesca treccia posata sulla testa; io sono al mio meglio quando sto seduta davanti al computer a cercare di far parlare un personaggio immaginario con un altro: non quando tengo conferenze come questa. Perché scrivere? Per comporre una certa frase, per finire una certa pagina. Preoccuparsi delle frasi è un capriccio estetico, l’equivalente culturale del pizzicare la cetra mentre Roma brucia? Questa tesi non l’ho mai capita. Che altro ha a disposizione uno scrittore, se non delle frasi? Chiedere a uno scrittore di non pensare alle frasi è come dire a un costruttore di non preoccuparsi della qualità dei mattoni. Perché scrivere? Perché ti sta a cuore questa faccenda delle frasi: ti sembra importante. E le vuoi scrivere alla tua velocità da lumaca, con tutta la complicata attenzione che meritano. Non è solo una cosa degli scrittori: in tutto il mondo la gente sta cominciando a capire la natura rivoluzionaria del micro-, delle dimensioni ridotte e della lentezza. Del fare le cose con le proprie mani. Del prendersi il tempo che serve. Della vita su scala umana. Sono tutti modi di rivendicare le nostre capacità di esseri umani in un mondo che spesso ci vede esclusivamente come produttori o consumatori.

Penso che stiamo entrando in un periodo rivoluzionario di intimità fra scrittore e lettore. Nessuno dei tramiti o dei guardiani che solitamente governavano tale rapporto ha più vera rilevanza: un editore non è garanzia di qualità per i lettori giovani (Cos’è Random House?), così come non lo è un certo agente letterario, e nessuno dei tradizionali percorsi di formazione e apprendistato. La gente si convincerà che sai scrivere solo leggendoti, avvertendo l’efficacia, la bellezza e le potenza delle tue frasi nel momento in cui le risuonano (o non riescono a risuonarle) in testa. In fondo, chiaramente, è sempre stato così, ma adesso tutto si basa su quella fondamentale connessione umana, dato che l’impalcatura dell’editoria, che sorreggeva e sostentava quel rapporto (e gli forniva una copertura quando era debole) comincia a crollare. Perché scrivere? Per esprimere la realtà delle capacità umane. Senza le quali non ci può essere arte né politica. Il nostro attuale modo di vivere è congegnato in maniera tale da incoraggiarci a credere che le nostre uniche capacità valide siano quelle che ci mettono in grado di acquistare merci. Tutto il resto è “subappaltato”, delegato ad altri. Sono altre persone a produrre il cibo che mangiamo e a cucinarlo, altre persone a realizzare i vestiti che indossiamo, spesso in condizioni di cui preferiamo non sentir parlare. (La nostra coscienza la deleghiamo agli attivisti e alle associazioni umanitarie.) Veniamo aggressivamente intrattenuti da “creativi” della tv che ci esentano dal dover essere creativi in prima persona, siamo politicamente sfiduciati per apatia e per la sensazione – di solito corretta – che la nostra classe politica sia meno potente delle aziende che la finanziano. Scrivere – per quanto patetico o assurdo possa sembrare farlo – ci permette di dimostrare che possediamo ancora abilità, idee e mezzi di comunicazione che sono nostri e basta, non legati alle carte di credito o alla posizione sociale. Ci consente di vedere il fine delle nostre azioni: almeno qui, su questa pagina. Il motivo per cui così tante persone hanno ancora voglia di dire “sono uno scrittore!” è che è uno dei pochi ruoli simbolici rimasti nella nostra cultura che sembra offrire alla gente ciò che la cultura nel suo insieme offre in teoria ma annichilisce nella pratica: l’autodeterminazione e l’espressione di sé. Logicamente, che il mestiere della scrittura non doni lo stesso tipo di libertà che si potrebbe pensare diventa ovvio quasi subito per chi molla il lavoro e si mette a tavolino per tentare di intraprendere seriamente questa carriera. E quelli che lo fanno per il prestigio o il potere che credono di ottenerne sono i primi a restare delusi. Anche gli scrittori di successo non possono assolutamente aspettarsi una posizione di vera autorevolezza all’interno della nostra cultura: non più. Il tuo valore è pari soltanto a quello della pagina che stai scrivendo, o della tua pagina che qualcuno ha appena letto. E su internet è probabile che il tuo nome comunque si sganci da quella pagina, e diventi semplicemente un “contenuto”, che gira per il mondo, è accessibile a chiunque e forse verrà considerato – in un futuro non troppo lontano – scritto da nessuno. (Fenomeno che ho sperimentato in prima persona: la frase che online mi si attribuisce più spesso in realtà è stata scritta da mio marito.) Ma allora come verranno pagati gli scrittori? Non ne ho idea. Forse ogni cittadino pagherà una “tassa per la cultura”. Forse gli scrittori torneranno a cercare la protezione dei mecenati. Senz’altro a questa nuova diffusione del ruolo dello scrittore dovrà corrispondere una nuova umiltà. I romanzi che parlano ai propri lettori come un prete parla alla sua comunità di fedeli appartengono a un’altra epoca. Che tono avranno i libri del futuro? Forse quello di una voce che si sente sussurrare in un gabinetto pubblico da un buco nella paratia che lo separa da quello accanto. Una scrittura che si costruisce a partire da fondamenta piccole, che ha un sapore artigianale e idiosincratico, che assomiglia non tanto a un’epica fanfaronata quanto a una sorta di interrogazione. Io ho questa sensazione. E tu? Io ho visto questa cosa. Riesco a farla vedere anche a te? Io ho avuto questa idea: tu la capisci? Io ho questo rapporto con la morte. E tu? Io ho questo rapporto con la tecnologia. E tu? Io ho questo rapporto con me stesso, e questo rapporto con il mondo. E tu? Io mi sto chiedendo se scrivere è possibile. E tu? Il che forse vale soltanto a dire che la prosa – a livello sia spirituale che professionale – si avvicinerà alla condizione della poesia. Il ruolo del grande romanziere, dell’artista onnisciente, è una maschera dei tempi andati che ogni tanto qualcuno ancora indossa, cercando di convincersi che gli sta bene, sperando di non sembrare troppo assurdo. Ma nessuno può essere onnisciente al giorno d’oggi: c’è troppo da vedere. Un tempo il mondo era piccolo: si pensava soltanto alla condizione degli abitanti del proprio villaggio e di quello accanto. Ora perfino il semplice gesto di preparare la cena – broccoli provenienti dal Kenya, patate dalla Spagna, stoviglie dalla Cina – ci costringe a pensare alle condizioni in cui la gente vive in tutto il mondo.

Per me, ora, lo scrittore occupa una posizione che sta in qualche modo al di sotto dell’artista, più vicino a quella dell’artigiano: un minuzioso fabbricante di oggetti, versato nel suo mestiere, le cui merci sono rilevanti o inutili a seconda della richiesta, ma che continua a costruirle comunque – per qualche assurda esigenza interiore – anche quando dall’altra parte della città apre un enorme stabilimento industriale. Io ho costruito questa sedia. Vi ci volete sedere? Ci volete salire sopra e mettervi a strillare? La volete fare a pezzi e usarla per accendere il fuoco? Un artigiano può sperare in tutte queste cose. Ma deve sempre mettere in conto l’eventualità – più comica che tragica – di essere un eccellente fabbricante di sedie che ha costruito una sedia che eccede la domanda, che è superflua in questo mercato, che nessuno vuole, o di cui nessuno ha bisogno.

[1] È una citazione dal Macbeth, atto IV, scena I. [n.d.t.]

[2] Un violento scambio di opinioni online.

[3] Metafora per indicare un testo pesante e troppo lavorato.