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L’intelligenza della bellezza

Atiq Rahimi

30 maggio 2023

Traduzione di Lorenzo Grandi


Se in un giorno d’inverno un ex esule come me, dopo un breve soggiorno nella natia Kabul – oppressa dalla Storia – atterra nella città floreale di Firenze – questa sì cara alla Storia – non è né il caso né il destino. Ma solo un sogno. Letteratura, direi. Una poesia.

Una poesia vissuta esattamente vent’anni fa, il 16 febbraio.

Siamo nel 2003. Il mio primo libro, «Terra e cenere», è appena stato pubblicato in Italia da Einaudi. Allora, il mio editore, Andrea Canobbio, mi commissiona un secondo libro, il racconto del mio viaggio in Afghanistan, dove sono tornato dopo diciotto anni di esilio.
Mentre cerco disperatamente un posto dove ritirarmi e scrivere, si realizza un bellissimo miracolo. Ricevo una telefonata da una certa Beatrice Monti della Corte, che con grande eleganza mi offre una residenza presso la sua magnifica fondazione Santa Maddalena, che ospita scrittori.
Un incanto!
Senza alcuna esitazione, accetto l’invito.

La prima sera, a cena, Beatrice mi chiede di sedermi accanto a lei. Condivido questo delizioso momento con Robin Robertson, poeta scozzese, e con la giovane romanziera israeliana di origine iraniana Dorit Rabinyan. Questi due autori sono in residenza da un po’. Si conoscono, io sono l’ultimo arrivato e spetta a me di raccontare.
Parlare del luogo da cui provengo, naturalmente. Di ciò che ho vissuto, di ciò che ho provato ritrovando la mia terra dopo tanti anni di assenza, ecc. Mentre mi accingo a fare il punto della situazione nel mio Paese da quando sono arrivate le forze internazionali per scacciare, per così dire, i Talebani, Beatrice, mentre mi ascolta, si alza per prendere il suo album di foto scattate durante il suo viaggio in Afghanistan negli anni Sessanta, quando il Paese viveva gli ultimi momenti di pace e plenitudine. Come se volesse impedirmi di piangere sulle rovine della mia città natale, che ha conosciuto in compagnia del grande Gregor von Rezzori, prima che questa terra fosse distrutta sotto gli stivali rossi degli invasori russi, poi devastata dalla mazza fratricida dei signori della guerra, e infine straziata sotto la sferza dei tenebrosi Talebani…
Le sue foto ci portano in un altro spazio-tempo, in un altrove, in un Paese che oggi è invisibile. Foto sublimi. In bianco e nero. Ogni scatto è un romanzo a sé, quello di una coppia elegantissima in un Paese senza età.

Quando Beatrice si imbatte nella foto in cui posa accanto a un levriero afgano, il verde dei suoi occhi irradia tenerezza, la stessa che prova per il suo cane Tomboy. «Adoro il levriero afgano», mi dice. «È così elegante, così bello»
«Sì, è vero», replico io, «è bello, ma è molto stupido, regalmente pigro e troppo pieno di sé!» Con un sorriso sulle labbra e uno sguardo che mi trafigge la mente, mi risponde con evidenza: «Ma ha il diritto di essere stupido, questo cane…perché ha l’intelligenza di essere bello!»
Poi si rimette a sfogliare tra i suoi ricordi, senza misurare il peso delle sue parole sul mio spirito ingenuo e fragile, che si sente condannato al silenzio tutta la notte per meditare.
L’intelligenza di essere bello!
Dice tutto. Come un mantra, queste parole mi perseguitano fino a tardi, fino a oggi. Posso anche confessarvi che, dopo quell’incontro, il mio sguardo verso la terra natia ha cambiato registro. Il libro che ho scritto a Santa Maddalena, intitolato «L’immagine del ritorno», ne è la testimonianza.

Ora capite la carica del titolo che ho scelto per la mia Lectio Magistralis, per aprire con onore e gioia un evento così prestigioso come il Premio Gregor von Rezzori. E questo in una città come Firenze, la culla del Rinascimento, la città dove l’essenza e il senso stesso della bellezza sono stati indiscutibilmente reinventati da e per una nuova umanità. Il che, lo ammetto, mi mette un po’ in soggezione.

Per non perdermi nel labirinto delle teorie su un tema così incerto, vorrei tornare alle mie esperienze personali e intime, passando per opere, oggetti, esseri, pensieri…che mi hanno rivelato questa intelligenza della bellezza, a volte con grazia e umiltà, a volte con insolenza e crudeltà. Come la massima di Beatrice. È per questo che mi affascina tanto. Sfida tutto il pensiero moralista con cui sono cresciuto, in una cultura che cerca la bellezza nel settimo cielo! In altre parole, una bellezza celeste e invisibile. Secondo tale concezione teologica, non posso attribuire la “bellezza” divina a una bestia, in questo caso a un cane, animale ritenuto impuro dalla religione monoteista.

E che dire di questa razza di cane, il levriero afgano conosciuto, da un punto di vista etico, per essere infedele, stupido e pigro!

Anche se non sono né uno storico né un critico d’arte, e sono ben lungi dall’essere un erudito, vorrei delirare su questo concetto, l’intelligenza della bellezza.
Delirare, come fa un esule come me nel suo perenne vagare tra territori diversi, storie diverse, lingue diverse, culture diverse, tempi diversi… Insomma, delirare nella sua schizofrenia individuale, sociale e “razziale”. Con mille scuse a Gilles Deleuze e al suo seguace, Félix Guattari, se li tradisco facendo miei i loro deliri sul delirio.
Come essere errante e nomade, avrei forse parole diverse dal delirio per capire questo mondo che mi strappa dalla terra natia e mi getta altrove?!

Il mio primo delirio:
Torniamo al levriero afgano!
In effetti, è bello questo cane. Basta contemplarlo dal punto di vista di un’esteta come Beatrice, che ammira l’animale per il suo corpo slanciato, il suo pelo abbondante, setoso e dorato…Per la sua andatura, che riflette un’eleganza naturale e maestosa…Ma probabilmente anche per le sue origini, il Paese che Beatrice ama tanto.
Scoperta nella città di Balkh, nel nord dell’Afghanistan, stando ad alcune pitture rupestri questa elegante razza esiste dal 2200 a.C.
In seguito, esportata in massa dagli inglesi nel XIX secolo, questa specie è quasi scomparsa nel Paese d’origine. È diventato un animale esule come me, un “animale in divenire” deterritorializzato!
Non c’è da stupirsi che nel 1938 Salvador Dalì lo abbia ritratto nel suo celebre quadro, molto enigmatico e delirante, dal titolo «Afgano invisibile con apparizione sulla spiaggia del volto di Garcia Lorca in forma di una fruttiera con tre fichi». Un bell’omaggio all’amico poeta impegnato, assassinato dai franchisti due anni prima.

Attraverso questa volontà estetica, mi accorgo che L’intelligenza della bellezza può essere poeticamente politica, e politicamente insolente non solo di fronte alla Storia, ma anche contro ogni pensiero dogmatico e dispotico.
Cosa rende politico il nostro levriero afgano? Le sue origini? Senza dubbio.

Come connazionale del levriero, sento in lui questa malinconia che, ovviamente, posso associare solo alle nostre origini perdute.
Sì, quel “sole nero” nei suoi occhi è l’ombra della sua nostalgia.
La nostalgia, malattia incurabile dell’esule in terra d’asilo. Sì, è questa nostalgia del Paese natio che abbellisce il nostro passato, quasi a farci dimenticare non solo le sofferenze e le violenze che ci hanno proscritto, ma anche l’angoscia e l’incertezza dell’esodo.
È lei, questa nostalgia, che trasforma la speranza in ricordo, il sogno in vissuto.
Costringe l’esule a reinventarsi.
Così, il mio vagare diventa uno stato. Uno stato di metamorfosi, come una farfalla. Così, sono condannato a lasciare il mio bruco, poi la terra, per diventare un callimorfo, una figura estetica, come la farfalla migrante disegnata da Piero di Cosimo sulla gamba di Venere (Venere, Marte e Amore, 1490).
Poi, andare altrove, sorvolare i confini.
O come un bambino che un giorno deve abbandonare il corpo della madre…
L’esilio è lasciare il proprio corpo dietro di sè, diceva Ovidio.
Sì, l’esilio non può essere scritto. Lo si vive come un’esperienza originale, che si rivela e mi rivela in un unico modo, quello della creazione.
Ricordiamo questa poesia di Rumi:

Ascolta questo nay che si lamenta; esso narra la storia della separazione. Dice: «Da quando mi han tagliato dal canneto, il mio lamento fa gemere l’uomo e la donna.
Cerco un cuore straziato dalla separazione per versarvi il dolore del desiderio.
Colui che è lontano dalla propria fonte aspira all’istante in cui le sarà di nuovo unito. (…)
Il linguaggio di chi parla, anche se ha cento canzoni, è muto per chiunque sia separato da colui».

Quando ero giovane, più giovane di oggi, sapevo questa poesia a memoria. Apre il grande libro di Masnovi. Sono molto legato a questi versi e al suo autore Rumi, anch’egli ostracizzato. A soli 12 anni partì con tutta la famiglia per la Turchia; la sua città natale, Balkh (la stessa in cui nacque la razza del levriero afgano), fu invasa dai Mongoli.
Questa poesia è un salmo sull’esilio. Alcuni lo interpretano come un’esperienza di separazione al momento della nascita.
Il nay, che indica il giunco con cui si scrive, è anche lo strumento musicale, il flauto, che grida come un bambino a cui è stato tagliato il cordone ombelicale.
Ma senza questa separazione, marcirei nella dimora materna. Per diventare un essere, un corpo, un’identità, devo quindi lasciare tutto.
Il nay che non viene staccato dal canneto non sarà mai in grado di produrre un bel suono. Da qui le melodie malinconiche che ne derivano. Allo stesso modo, il nay non sarà mai in grado di disegnare belle parole in calligrafia sulle pagine bianche.
Sì, anche il giunco ha l’intelligenza di essere bello!

Passiamo ora, senza soluzione di continuità, al mio secondo delirio:
Era inverno a Kabul, nel 2002. La neve aveva steso una coltre bianca sulla città, come a coprirne le rovine, le ferite, il volto, l’angoscia di 25 anni di guerra.
Dopo diciotto anni trascorsi in esilio, stentavo a credere a ciò che vedevo. Tutto sembrava un sogno, un incubo a occhi aperti, che dovevo fotografare per una rivista francese che mi aveva chiesto di realizzare alcune immagini del mio ritorno in patria.

Con lacrime gelate e respiro frigido, camminavo per la città. Con due macchine fotografiche all’ultimo grido a tracolla, cercavo le tracce della mia infanzia nell’abbraccio nudo dei giardini, nella speranza dimenticata della nostra casa, nei sogni irrealizzati della mia scuola…per imprimerle nella memoria dell’immagine. Ma nulla restava impresso come nelle mie intenzioni. Nessun volto. Nessun paesaggio. Le mie foto non erano né intelligenti né belle. Erano senz’anima. Prive di una narrazione. Prive di uno sguardo. Insomma, erano tutte di una banalità insopportabile.
Durante il mio disperato girovagare nei bazar di Kabul, mi imbattei nelle vecchissime macchine fotografiche usate dagli inglesi nel XIX secolo per immortalare le loro conquiste e le loro colonie. Da allora, questi apparecchi molto rudimentali sono stati utilizzati dagli Afgani come “kamra-é faeri” (fotocamera istantanea), per scattare le foto per i documenti d’identità. Fino a oggi.
Così, noleggiai la macchina fotografica e assunsi il fotografo come mio assistente, in cambio delle mie sofisticatissime fotocamere, che costavano dieci volte di più della sua. Non poteva crederci. Era il suo sogno averne una! Per fare una prova, fotografai un signore anziano su una sedia, in mezzo alla strada che attraversa la città vecchia di Kabul, ai piedi dell’altura chiamata Città degli amanti e dei saggi, caduta in rovina durante la guerra civile. Scattai una foto al vecchio. Il mio assistente sviluppò subito la foto all’interno della “scatola magica”, come la chiamava lui. Una foto strana. Il vecchio era quasi a fuoco, così come le rovine intorno a lui, ma la strada no. Neanche i passanti. Né le auto…
«Che bella!», dissi al mio assistente, che mi guardò sorpreso. «Ma è sfocata, mossa, ha delle scie e l’esposizione è sbagliata! Come fa a essere bella?!», mi chiese. In effetti, come mai ricomparve la parola bello? Dov’era la bellezza? Nelle rovine? Nel volto stanco del vecchio? O nelle scie dei passanti invisibili?
Non riuscivo a spiegarglielo. Con la testa piena di domande, tornai all’appartamento che avevo affittato nel cuore di Kabul. Le foto che avevo scattato durante la giornata erano sparse davanti a me sul tappeto rovinato. Annotai la nostra conversazione nel mio taccuino:
Il mio assistente: «Prima di te, grandi fotografi di tutto il mondo sono venuti qui e hanno scattato foto bellissime»
«Ma io», dissi, «non cerco la bellezza…Sto cercando di fotografare le mie ferite…» 
Mi scrutò con empatia, chiedendomi ingenuamente, o ironicamente, perché non portassi addosso le mie ferite!
Volevo rispondergli che gli esuli si lasciano alle spalle i loro corpi, oltre che le loro piaghe. Ma non dissi nulla, non citai Ovidio. Tacqui.
Oggi, quando ripenso alla mia esclamazione «Che bella!», mi chiedo se non sia stato per beatitudine, di fronte a questo vecchio mortale che, seduto dinanzi al sole al tramonto, nel bel mezzo delle rovine, diventa l’eterna figura di una tragedia storica. Tutto ciò che si muove intorno a lui è scomparso in una scia sotto forma di tracce invisibili!

L’eterno e l’effimero, altre due figure che danno forma e senso alla bellezza. Questo è l’intelligenza di tutto ciò che è mortale.

Il mio terzo delirio:
Lo dedico a una scena erotico-mistica nota come «Shirin al bagno». È stata dipinta da quasi tutti i grandi miniaturisti del Vicino Oriente, dell’Asia centrale e persino dell’India. E molte volte è stata vietata.
Si tratta di un passaggio del libro «Khosrow e Shirin», leggenda che fu raccontata per la prima volta dal grande poeta Ferdowsi (940-1020) nel suo poema epico Il Libro dei Re, ma fu Nezami, un secolo dopo, che la rese celebre e magnificamente romanzesca.
Torniamo alla storia.
Lui si chiama Khosrow ed è un principe sassanide di religione zoroastriana.
Lei si chiama Shirin ed è una principessa armena di fede cristiana. Khosrow si invaghisce di lei attraverso le parole del suo amico pittore Shapour, che ne descrive l’angelica bellezza con ardente lirismo.
E Shirin si innamora dell’immagine di Khosrow che il pittore realizza e appende con discrezione nel giardino dove la principessa passeggia ogni giorno con le sue cortigiane.
Impaziente, Shirin decide di partire per trovare il suo principe; allo stesso modo, il principe, infatuatosi, parte immediatamente per l’Armenia per incontrarla. Le loro strade si incrociano in corrispondenza di una sorgente in cui la principessa si lava. Ovviamente è nuda. Il principe Khosrow, nascosto dietro una roccia, la osserva senza sapere chi sia. Come in tutte le miniature dell’epoca, l’eroe non ha alcuna espressione. Nemmeno nel suo sguardo, che spia la nudità o l’anima di Shirin. Tranne che per un gesto: l’indice sulle labbra.
Può solo contemplare. Il suo stupore si esprime solo attraverso gli occhi e il dito.
Nella cultura mistica, soprattutto in Oriente, l’indice è la metafora stessa dell’incanto, per cui esiste anche un’espressione: “aingosht-é hayrat”, il dito dello stupore; ma in questa tradizione, l’indice non indica la meraviglia, si posa sulle labbra dell’essere meravigliato, come per condannarlo al silenzio. Ascolto e guardo, poiché nessuna parola può definire il mio stato. Da dove viene questa beatitudine senza parole di fronte alla bellezza?
La risposta è senza dubbio in un magnifico passo dei testi talmudici, che conoscono tutti e che mi piace riportare: «Prima della nascita», recita il Talmud, «l’uomo è uno spirito puro e ha ancora l’ultima conoscenza delle sue vite precedenti.
È allora che appare un angelo che gli ordina di mantenere segreta questa conoscenza. L’angelo mette il dito sul labbro del bambino e in questo preciso momento il bambino dimentica tutto per entrare nella vita. Del gesto dell’angelo, rimane una traccia: la piccola cavità che disegna uno spazio tra il labbro superiore e la base del naso [da cui il nome: sigillo dell’angelo]. Solo così potrà emettere il suo primo grido».
Al di là di qualsiasi interpretazione biblica o coranica, lo stupore ha un legame molto profondo con tutto ciò che mi riporta alle mie origini. Non solo alle mie, ma anche a quelle dell’umanità.
È l’atteggiamento del bambino che scopre la vita.
L’atteggiamento dei primi uomini che scoprono il mondo. L’atteggiamento di chi si trova davanti a un’opera originale.

Da giovane, guardando questi dipinti in miniatura, credevo che fossero stati concepiti e realizzati da mani divine, o da quelle di Adamo ed Eva, come ricordo del loro paradiso perduto. Soprattutto davanti alla scena
«Shirin al bagno» che, ai miei occhi, rappresentava l’originaria nudità dell’umanità nel Giardino dell’Eden.

Mi piaceva il gesto dei personaggi dipinti, l’indice sulle labbra! Come per esprimere il loro “hayrat” (stupore) di fronte alla bellezza di questo mondo meticolosamente ridotto alle dimensioni di una pagina di libro. Nessun naturalismo; tutto era immerso in colori splendidi e celestiali. Non c’erano ombre, tutto era illuminato dalla luce divina. I corpi non sembravano soffrire della loro pesantezza su questa terra eterea. I volti si assomigliavano tutti. Rotondi, con gli occhi a mandorla, senza la minima emozione. Nessuno aveva le labbra aperte, come se tutti parlassero con il linguaggio del silenzio. Anche nelle scene di guerra non vedevo nessun dramma. Non sentivo nessun grido. Non percepivo alcuna sensazione di dolore. Solo serenità, pace, eternità…Allo stesso modo, non si muoveva nulla; “domato dall’immagine”, come diceva un poeta persiano, tutto era sospeso nel tempo e nello spazio della pagina. Un atteggiamento mistico e metafisico, direi, che si incontra in tutta la letteratura classica dell’Oriente, sia nelle opere epiche sia in quelle romantiche.
E poi, questa plenitudine che prescindeva da qualsiasi forma vuota. Ogni
oggetto, ogni personaggio era dipinto con una tale meticolosità da rendere le opere miotiche. Immaginavo i miniaturisti con il naso incollato ai loro lavori, ignorando tutto ciò che era lontano, gli orizzonti, il mondo.
E che planitudine! Che faceva apparire esseri e oggetti su una superficie senza profondità prospettica, come se fossero lì solo per ricordarci che sono tracciati, lettere, motivi e nient’altro! La miniatura mi gridava: «Sono solo un quadro», un’opera divina. L’immagine dell’immagine.
Di fronte a questo piccolo mondo “immaginale”, secondo l’espressione usata da Henry Corbin per indicare ciò che l’esegesi islamica chiama “Malakut” (il mondo angelico), mi sono sentito anch’io come un angelo, assente nell’immagine, ma onniveggente!

Il mio stato di beatitudine di fronte alla bellezza dell’immagine, che rivela un mondo invisibile, era inquietante. Mi conduceva in una stranezza inquietante. In una sorta di estasi come quella che il grande Attar, sempre lui, descrive nel suo capolavoro, «Il verbo degli uccelli».
Forse conoscete la storia di tutti gli uccelli del mondo che devono recarsi sulla montagna di Qaf per incontrare il loro re Simorgh, l’essere supremo. Per arrivarci, devono attraversare le sette valli, ovvero le valli della ricerca, dell’amore, della conoscenza, del distacco, dell’unificazione, dello stupore, e della privazione e dell’annientamento. È la penultima che mi aiuta a capire perché la bellezza subliminale mi distoglie dal mondo reale, con violenza e crudeltà:

«Quando il viandante giungerà ormai smarrito in questi luoghi desolati, dovrà perdere se stesso lungo la via dello stupore, ignaro della propria esistenza e di quella di ogni altro.
Colui che abbia impresso nell’anima il sigillo dell’unità, qui smarrirà le tracce di ogni cosa reale e persino della propria persona. E se qualcuno gli chiederà: “Esisti o non esisti, ci sei o non ci sei? Sei ancora presente o ti sei già annullato? Sei nascosto o manifesto, o entrambe le cose?”, egli risponderà: “Io in verità non so nulla, non so né questo né quello! Mi sono innamorato, ma ignoro di chi, Non posso considerarmi né un fedele né un infedele, ignoro chi io sia. Dell’amore che mi governa io neppure ho coscienza, il mio cuore trabocca di passione ed è vuoto”.»

Se questo stupore di fronte alla bellezza mi fa perdere l’orientamento, come possono certi credenti non esserne spaventati?
Da qui la loro ossessione di nasconderla, renderla invisibile, inafferrabile, come Dio!
Da qui la proibizione delle immagini all’inizio delle religioni monoteiste, e da qui la profanazione e il sacrilegio degli artisti rinascimentali, che hanno saputo sostituire il loro sguardo umano alla visione divina della bellezza, fondando così una nuova era nella Storia dell’umanità. Wittgenstein non ha torto a dire che la scoperta della prospettiva nel Quattrocento «era un nuovo modo di parlare, un nuovo paragone; e, si potrebbe anche dire, una nuova sensazione».
Questa nuova sensazione l’ho provata quando mi sono trovato per la prima volta di fronte alle opere di questo periodo. Se oggi ne parlo, non è perché sono stato invitato a Firenze, ma perché sono spinto dalla passione che nutro da tempo per il Rinascimento. Perché è a partire da quel periodo che vedo allontanarsi i due mondi, l’Occidente e l’Oriente, e i due modi di pensare, di vivere, di creare…
Ed è così che mi sono reso conto dell’importanza di “pensare per immagini”. Ciò mi ha permesso di avere nuova visione del mondo, un nuovo modo di comunicare, di pensare, di dire, di esprimermi…E anche di trasformare tutto il mio rapporto non solo con Dio, ma anche con la natura, la realtà, la Storia, e soprattutto la bellezza!
Questi artisti del Rinascimento mi hanno insegnato che non è solo la luce divina a dominare il mondo, ma anche l’oscurità. La bellezza del mondo non si manifesta nel sacro invisibile, ma attraverso il volto visibile e profano dell’uomo.
Ormai non descrivo più il mondo a partire da una visione divina, ma attraverso lo sguardo, il mio sguardo, integrando grazie alla prospettiva il mio punto di vista di colui che guarda, di SOGGETTO che guarda.
Non percepisco più il mondo con il cuore, nel modo in cui vedevano i mistici musulmani, ma organicamente, con i miei occhi e con il mio corpo.

E, con le parole di Rotman, grido: «È così che vedo qui e adesso!»
Così il mio presente prevale sul mio passato, la mia vita terrena sul mio sogno celeste…
La bellezza mi è ormai tangibile, intelligibile e intelligente. Non sono più di fatto a immagine di Dio, ma Dio è la mia immagine. Cerco la bellezza nell’uomo, con l’uomo…
E quando mi sono messo a scrivere, non avevo più come riferimento la vita celeste, ma l’esistenza umana. Contrariamente ai miniaturisti, per i quali la veridicità degli eventi storici non aveva più nessuna importanza. Né, del resto, i codici narrativi. Né la legge della verosimiglianza. Né la somiglianza.
Mi interrogo allora sul ritratto di Khosrow attraverso il quale Shirin si innamora del principe. Gli assomiglia? Ne dubito fortemente. Infatti, Shirin si innamora di una figura, di un nome, di un’anima, ma non di un volto, di un essere, di un corpo…Perché in questa tradizione pittorica non si sa disegnare a partire da un modello reale e naturale, ma da figure leggendarie e immaginarie, mentre i pittori del Rinascimento ritraevano eroi mitici, e persino santi, con le fattezze di esseri profani e realmente esistenti.
E tutta la bellezza umana è lì, in questa liberazione del corpo, nella sua indipendenza dall’anima e nella sua esistenza rispetto all’essenza.
Non sono più un essere finito, ma uno che si fa, si costruisce nel corso dell’esistenza con infinite possibilità.

Passo ora al mio quarto delirio:
Questo per celebrare l’insolenza dell’intelligenza della bellezza rispetto alla bellezza assoluta.
La consapevolezza della mia finitudine tra due infiniti – il nulla prima della nascita e la morte – ha messo in discussione l’universo chiuso predicato dal monoteismo. E, allo stesso modo, la bellezza perfetta, finita e trascendentale.
Ora, in questo mondo ormai infinito, in questa realtà continua, non voglio più rinchiudermi in un’opera che rappresenta un universo chiuso e condensato…Voglio realizzarmi in “opere aperte”. Da qui deriva il mio fascino per l’estetica del non finito, che un tempo era un concetto negativo. Ma, scoprendo le opere incompiute di Michelangelo, sempre lui, condivido questa osservazione di Vasari: “…la sperienza fa conoscere che tutte le cose che vanno lontane, o siano pitture o siano sculture o qualsivoglia altra somigliante cosa, hanno più fierezza e maggior forza se sono una bella bozza che se sono finite”.

La bellezza compiuta e assoluta mi rinchiude in un mondo che non mi lascia partire per un viaggio verso l’infinito, verso il paese aperto delle meraviglie.
L’arte del non finito mi consente di partecipare attivamente al processo creativo, al “divenire opera”.
Sì, un’opera incompiuta offre più intelligenza alla bellezza.

Il mio quinto delirio mi porta in India:
Questo viaggio, che ho fatto quando ero molto giovane, mi ha consentito di allontanarmi dalla mia cultura di origine musulmana e di comprendere meglio alcuni aspetti profondi della cultura del mio Paese natale, un tempo crocevia di civiltà diverse, come quella zoroastriana, buddista e greca, le cui vestigia miracolosamente sopravvivono nel nostro inconscio collettivo.
Sì, la mia terra era anche questo! E anch’io.
L’India mi ha risvegliato ancora di più quando mi sono trovato davanti a due monumenti, uno che incarna Eros e l’altro Manatos: il tempio di Khajurâho e la tomba del Taj Mahal. Due emblemi della bellezza!

Immaginatevi nel caldo dell’India centrale un sedicenne afgano, con la testa piegata all’indietro e un timido sorriso sulle labbra, sbalordito ai piedi del tempio di Lakshmana. Divora con gli occhi – spalancati – le scene d’amore scolpite con tanta sensualità in un luogo sacro.
Cosa prova? Lui che, nel suo Paese, per il peccato di Onan si accontentava delle immagini di modelle seminude trovate sulle riviste di moda nelle sartorie locali, dove accompagnava – con quale gioia! – sua madre o sua sorella. Si infilava di soppiatto nei camerini, sfogliava avidamente le riviste e registrava nelle retine ogni immagine nei minimi dettagli.
Ai piedi del tempio di Lakshmana, questo giovane afgano si meraviglia degli dèi che hanno un volto, un corpo, un sesso, un desiderio…Non sono solo amore, ma fanno anche l’amore, e anche meglio degli esseri umani! Che piacere credere in dèi amanti e in dee bramose, che non condannano mai i loro corpi all’incertezza e alla sofferenza!
Qui il corpo è un linguaggio sublime del desiderio, sia erotico sia spirituale.
E che piacere prendere coscienza dell’adagio che vedeva calligrafato sui parabrezza delle auto afgane: «L’amore non è un peccato!»

E capire anche l’esaltazione dei poeti mistici persiani nei confronti di Allah, descritto, venerato e lodato come una donna amata. Una concezione platonica? Senza dubbio.
Ma ancora…
Sa che la letteratura mistica persiana è fortemente influenzata dal buddismo. Che la sua cultura, nota come Gandhara, ha radici greco-buddiste. Sì, è in queste due civiltà che gli dèi fanno l’amore, che sono umani, troppo umani.

Immaginate poi lo stesso giovane uomo davanti alla maestosità del mausoleo Taj Mahal, un monumento costruito come prova d’amore dal re moghul Shah Jahan (XVII secolo) in memoria della moglie Arjumand Banu Begum, morta nel 1631. Lei riposa qui, nel cuore di questo capolavoro architettonico che unisce arte islamica, persiana, ottomana, indiana e italiana. Di un bianco etereo, il mausoleo è decorato con ventidue passi del Corano in arabo, calligrafati con pietre nere, magistralmente intarsiate nel marmo. Non sono presenti immagini di esseri umani, né sculture. Astrazione assoluta, fatta eccezione per i motivi floreali. Qui la divinità è senza volto, senza corpo, senza sesso, senza desiderio…L’unica mimesi che si trova in questo edificio è il riflesso del Giardino Celeste, come descritto dal grande mistico arabo Ibn Arabi nel suo libro «Le rivelazioni della Mecca», e suggerita dal versetto del Corano che abbellisce il portico all’ingresso del mausoleo come per accogliere con grande devozione i visitatori: «O anima acquietata, ritorna al tuo Signore soddisfatta e accetta; entra tra i Miei servi, entra nel Mio Paradiso».

Che grande sfida costruire sulla terra l’opera celeste di Dio, un paradiso per i morti!

Tra queste due meraviglie del mondo, il giovane afgano capirà che si delineano due percorsi distinti:
uno lo invita a conoscere la bellezza attraverso l’eros, l’altro attraverso il thanatos.
Ma, direte voi, questi due percorsi si incrociano da qualche parte.
Perché tutto ciò che è fragile, effimero e mortale ricerca la bellezza per diventare eterno. Infatti, il fiore, per riprodursi, deve attirare insetti e api con la sua bellezza e il suo profumo… Come per gli animali, così per gli esseri umani…L’essere umano è mortale, ed è grazie all’amore che cerca l’eternità. E anche grazie all’arte. 

L’Amore, la Morte e l’Arte: ecco altre tre fonti di bellezza.

E per concludere, il mio ultimo delirio:
Meditando su questa triade, mi rendo conto che nella mitologia delle più grandi civiltà, sia monoteiste sia politeiste, la bellezza si rivela sempre all’interno di un trittico che la dice lunga sulle loro fondamenta.
Partiamo dall’Egitto, dove la dea Hathor ha gli attributi seguenti: l’amore, la bellezza e la maternità.
In Grecia, Afrodite: la bellezza, l’amore e il desiderio. A Roma, Venere: la bellezza, il fascino e la fertilità.
In India, Lakshmi: la bellezza, la prosperità e l’opulenza.
In America Latina, Oshun: la bellezza, la fertilità e il denaro. In Giappone, Benzaiten: la conoscenza, l’arte e la bellezza.
E secondo la saggezza taoista cinese, come sottolinea François Cheng nelle sue magnifiche cinque meditazioni sulla bellezza, quest’ultima risiede solo nella triade spirituale seguente: il Vuoto, il Soffio e la Via.
Allo stesso modo, nelle tre religioni monoteiste la bellezza non esiste di per sé, non è uno dei componenti della triade, ma una realizzazione spirituale che risulta da altri tre codici morali e teologici.
Nell’ebraismo: il Verbo, l’umiltà e il pudore.
Nel cristianesimo: l’amore, il perdono e la redenzione.
Nell’Islam, la fonte della bellezza è Dio, con i suoi 99 attributi chiamati asma al-hosna (i nomi più belli), seguiti dalla Creazione e dalla Rivelazione.
E così via.
Ma dove, in quale triade, dobbiamo cercare l’intelligenza della bellezza?

Mi sarebbe piaciuto delirare su ogni triade, ma il campo è vasto e non ho i mezzi per avventurarmici. Chiedo aiuto alle sagge parole di un grande mistico persiano, Shohabiddin Yahya Sorhravardi, vissuto nel XVII secolo e assassinato ad Aleppo, all’età di 36 anni, vittima dell’intolleranza. Per quanto ne so, è il primo e raro pensatore orientale e musulmano che abbia costruito un vero e proprio sistema di pensiero filosofico con concetti propri. Mentre la teologia islamica cercava invano di definire la bellezza a partire dai versetti del Corano e dagli hadith maomettani, egli, attingendo al pensiero greco, zoroastriano, buddista e abramitico, sviluppò una concezione molto precisa dell’estetica, prendendo spunto dalla storia di Giuseppe, emblema della bellezza assoluta nella mitologia coranica.


Discostandosi dalla teoria platonica, non concepisce la bellezza a partire dall’idea di bellezza, ma con la bellezza stessa, che chiama in arabo “hosna”. Essa è, dice Sohravardi, fratello maggiore dell’amore, (“ishq”), e della malinconia, (“hozne”). Quest’ultima è definita come la nostalgia che ci coglie davanti “all’assenza di ciò che è stato”.
È in questa triade che prende forma e senso l’intelligenza della bellezza. Proprio come il levriero afgano, la cui bellezza malinconica risveglia in me la passione per il Paese perduto!

Grazie a Beatrice per avermi dato l’opportunità di delirare in questo modo.