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LA SOMIGLIANZA

Emmanuel Carrère

12 Giugno 2014

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Esattamente due anni fa, nel giugno 2012, mi trovavo qui in veste di scrittore residente presso la fondazione Santa Maddalena e di finalista del premio Gregor von Rezzori. Era la prima volta in vita mia che facevo l’esperienza di scrittore residente in qualche posto. Avevo un po’ di paura. Mi avevano detto: può essere delizioso o molto difficile, a seconda che tu vada d’accordo o no con Beatrice. È stata una delizia, e penso di poter dire che sono andato più che d’accordo con Beatrice Monti della Corte, fondatrice e anima di questo «rifugio per botanici e scrittori» e della manifestazione grazie alla quale siamo qui oggi. Si può essere intimiditi da lei, è vero. Possono mettere un po’ a disagio la sua ironia, il suo rifiuto di ogni sentimentalismo e la sua familiarità con gente quasi tutta famosa e di talento: se Beatrice vi parla di un simpatico ragazzo, tipo figlio di meccanico che ha messo su un gruppo rock con gli amici, è Mick Jagger. Personalmente, ho trovato fantastico che mi raccontasse che a dieci anni è stata in Etiopia con Malaparte; che, qualche tempo dopo, ha abitato in casa di Henry Fonda insieme con Rex Harrison, James Stewart e Laurence Olivier; o che il mio autore preferito, Henri Michaux, le ha fatto timidamente la corte quando era una giovane gallerista, lo ammette lei stessa, «piuttosto benfatta» – la verità è che era di una bellezza strepitosa, e lo è ancora. Ho trovato fantastico che mi parlasse dei suoi amici, delle sue case, dei suoi amori, e soprattutto del grande amore della sua vita, l’uomo attorno al quale e per il quale ha creato Santa Maddalena: Grisha.

Come tutti, qui, ho cominciato a chiamare il famoso scrittore austroungarico Gregor von Rezzori, che quest’anno avrebbe compiuto cent’anni, con il diminutivo Grisha – come se non fosse morto da quattordici anni e tornassimo insieme da una lunga passeggiata in campagna, con i cani. Avevo letto e ammirato Tracce nella neve e Memorie di un antisemita, e dopo quel soggiorno ho letto tutti gli altri suoi libri. Ammiro il suo stile duttile e sinuoso, la sua folle libertà, quel suo ridersela beatamente di tutto. Mi piace, come in passato mi è piaciuto Nabokov, del quale però non ha né la pedanteria né l’arroganza. Quando si apre la porta di uno dei suoi libri, non si ha la sensazione di dovere stare sul chi va là. Grisha è cordiale, ospitale. Anche quando vi prende un po’ in giro si sente che vi vuole bene. Dio solo sa se è presente nei suoi libri, lo è anche in ogni stanza di Santa Maddalena – in particolare nello studiolo al primo piano della torre, dove mi piaceva tanto lavorare e di si cui parla lungamente all’inizio del suo meraviglioso racconto Anecdotage. Grisha è presente ovunque, come se fosse uscito soltanto per fare un salto a Donnini, ed è presente soprattutto nelle parole di Beatrice. Credo che sia stato questo a piacermi più di ogni altra cosa, qui. Il modo in cui lei lo ha amato, in cui lui ha amato lei, e le vibrazioni positive con cui questo amore riempie ancor oggi la casa, il giardino, fino ai conclavi di lucciole che, quando si fa buio, si riuniscono attorno alla piramide eretta in ricordo di Grisha. Si può raccontare la storia dal punto di vista di Beatrice, ma dato che io sono un uomo e uno scrittore tendo a identificarmi con Grisha, e penso che Grisha abbia avuto una fortuna pazzesca. Fare una vita da vagabondo di lusso, e poi a cinquant’anni suonati incontrare Beatrice e trascorrere con lei i trent’anni successivi. Vivere con lei a Santa Maddalena, e qui scrivere i grandi libri che prima non aveva il tempo e forse neanche intenzione di scrivere. Penso che Grisha sia stato, di rado lo si può dire di uno scrittore, un uomo felice.

È questo del resto il primo argomento al quale avevo pensato per questa conferenza: si può essere nello stesso tempo un grande scrittore e un uomo felice? Ci sono precedenti? Quali? Avevo cominciato a cercarli, e poi ho sterzato verso un altro argomento, anch’esso legato al mio soggiorno fiorentino di due anni fa.

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Ero dunque tra i finalisti del premio von Rezzori. Non ho vinto io, ma Enrique Vila-Matas, uomo timido e trasognato che sembrava afflitto dalla notizia come se temesse che, ormai, i colleghi meno fortunati gli avrebbero voltato le spalle. Abbiamo cercato di consolarlo dicendogli, da un lato, che il premio lui lo meritava, dall’altro, che anche tutti gli altri finalisti ricevevano un assegno, non soltanto il vincitore. È una generosità che merita di essere sottolineata, perché non credo ci siano casi simili. Prima dell’assegnazione del premio, c’è la Lectio magistralis, quella che oggi tengo io e che due anni fa ha tenuto il grande romanziere canadese Michael Ondaatje. È stata davvero magistrale, la Lectio magistralis di Michael Ondaatje, il quale ha parlato dell’arte meticcia, dell’arte ibrida, dell’arte del riciclo, e io come tutto il pubblico l’ho trovato appassionante, coinvolgente, ma ciò che vorrei raccontare, il punto da cui vorrei cominciare la mia conferenza, è qualcosa che è accaduto subito prima, e lì nei pressi. All’epoca, la Lectio magistralis si svolgeva nel palazzo Medici Riccardi. Bene, nel palazzo Medici Riccardi c’è, tutti gli appassionati d’arte lo sanno, una cappella decorata sulle quattro pareti da un affresco di Benozzo Gozzoli in cui è raffigurato il corteo dei Magi che vanno ad adorare il Bambin Gesù. È una cappella abbastanza piccola, che si visita in gruppi ridotti, a orari stabiliti, e naturalmente è meglio così che niente, ma i gruppetti sono comunque piuttosto numerosi, minimo una ventina di persone, e l’ideale è visitarla al di fuori degli orari per il pubblico, come si visitano i musei il giorno di chiusura – cosa che io ho potuto fare grazie a Max Rabino.

Max Rabino è un carissimo amico di Beatrice: un appassionato d’arte, un cultore di sconfinata sapienza, che come certi personaggi del teatro diČechov sembra far parte della casa. Ho avuto per Max una specie di colpo di fulmine amicale. Mi è piaciuto quel miscuglio di saggezza da vegliardo – la disillusa saggezza dell’Ecclesiaste – e di innocenza infantile che c’è in lui: un autentico taoista, Max. Dunque, ho avuto il privilegio di visitare la Cappella dei Magi in sua compagnia, e durante la visita Max mi ha fatto notare una cosa: se guardiamo il corteo dei Magi, vediamo decine di personaggi, forse addirittura un centinaio – non li ho contati. Quelli in primo piano sono personaggi importanti della corte dei Medici – Cosimo, Lorenzo, le tre sorelle di Lorenzo, il capitano di ventura Sigismondo Malatesta, ci dicono gli storici dell’arte. Gli altri sono chiaramente dei passanti che si potevano incrociare per le strade di Firenze attorno al 1460. Che si tratti di figure di primo piano o del volgo, non ci possono comunque essere dubbi sul fatto che sono stati tutti dipinti dal vero. Anche se non sappiamo chi erano i modelli, possiamo mettere la mano sul fuoco che i ritratti sono assolutamente somiglianti. In compenso, quando ci avviciniamo alla mangiatoia, ci troviamo di fronte ad angeli, santi, legioni celesti, e d’un tratto i volti diventano più regolari, più idealizzati. Ciò che acquistano in spiritualità, lo perdono in espressività, in specificità, in vivacità: possiamo essere certi che non si tratta più di persone reali.

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Mi piace la pittura di paesaggio, mi piacciono le nature morte, mi piace la pittura non figurativa, ma più di tutto mi piacciono i ritratti. Quando vado in un museo, la prima cosa che guardo sono i ritratti, e penso che se avessi fatto il pittore sarei stato senza dubbio un ritrattista. Del resto, mi considero nel mio campo una specie di ritrattista. È per questo, credo, che l’osservazione di Max mi ha tanto colpito. In seguito ho fatto un esperimento, vi consiglio di farlo anche voi. Guardate un ritratto, uno qualunque. Vi accorgerete di riuscire a distinguere istintivamente, intuitivamente, senza neanche rendervene conto, quelli che sono stati dipinti dal vero da quelli che raffigurano personaggi inventati, nati dalla fantasia dell’artista. Non c’è bisogno di una guida per essere sicuri che il Monsieur Bertin di Ingres o il doge Loredan di Bellini sono esistiti. I personaggi di Michelangelo, le vergini di Raffaello, no. Non dico che i primi siano migliori dei secondi, dico soltanto che sono diversi, e che questa diversità salta agli occhi. Dopo quella visita, mi sono chiesto se questa diversità, così evidente in pittura, si possa osservare anche in letteratura.

È un problema che m’interessa in modo particolare, perché da circa vent’anni non scrivo più romanzi, nel senso in cui i romanzi sono fiction, opere che mettono in scena personaggi di fantasia. Ormai scrivo libri che vengono definiti, in mancanza di un termine migliore, non-fiction, e io per primo insisto, forse con una certa pesantezza, sul fatto che ciò che racconto è vero, che i personaggi che cerco di descrivere hanno il loro modello nella realtà e non sono un parto della mia fantasia. 

Allora mi si fa notare, a ragione, che questo argomento del «reale» si espone a molte obiezioni. Posso ripetere quanto voglio che Limonov, per esempio, esiste, ciò non toglie che il Limonov del mio libro sia in parte il Limonov reale e in parte un prodotto della mia fantasia. Io stesso non so bene dove finisca l’uno e dove cominci l’altro. Mi trovo costretto ad ammettere che tra i due non c’è un confine preciso. Questa ambiguità è peculiare della letteratura. Non esiste nel cinema. I critici potranno anche dirvi che la cosa è complicata, che i confini tra documentario e fictionsono sempre più vaghi, ciò non toglie che un confine ci sia, e in realtà sia chiarissimo. In un film di fiction i personaggi sono interpretati da attori. In un documentario i personaggi che si vedono sono veri. Secondo me, il succo è tutto qui, e vi sfido a farmi il nome di un film che non rientri in questa classificazione binaria.

A questo proposito, permettetemi di aprire una parentesi per raccontarvi una storia. Una decina d’anni fa, in una cittadina russa, ho girato un documentario intitolato Ritorno a Kotelnich – Kotelnich è il nome della cittadina, non la conosce nessuno tranne le persone che hanno la sfortuna di viverci e quelli che hanno visto la mia pellicola. Sono rimasto parecchi mesi a Kotelnich, ho ripreso i suoi abitanti, ho stretto con loro rapporti spesso complicati. Non capivano perché fossi andato lì a riprenderli, che cosa volessi fare con quelle immagini, e non mi era facile spiegarglielo perché nemmeno io lo sapevo. Aspettavo che succedesse qualcosa, e qualcosa è successo davvero. Una cosa orribile: una ragazza del posto, una ragazza che conoscevo, che mi era cara, che qualche volta aveva lavorato come interprete per me e la mia troupe, è stata barbaramente uccisa. Fatta a pezzi a colpi d’ascia da un folle, insieme con il suo bambino di diciotto mesi. Da quel momento, il film ha preso un’altra direzione. Invece di divagare in cerca di un argomento, ha cominciato a raccontare qualcosa, qualcosa di romanzesco e al tempo stesso tragico, e alcuni abitanti che avevamo ripreso senza sapere quale racconto ricavare da quelle immagini sono diventati anche loro, per la forza degli eventi, personaggi romanzeschi e tragici. Il più romanzesco e tragico di tutti era il compagno della ragazza assassinata, il padre del bambino assassinato, che era anche il delegato locale dell’FSB – quello che una volta si chiamava KGB. Un tipo misterioso, al tempo stesso seducente e inquietante, diffidente sino alla paranoia quando era sobrio, e, appena aveva bevuto – il che capitava spesso – capace di confidarci i segreti più intimi come se fossimo i suoi migliori amici. Detto questo, la storia che voglio raccontare non si svolge a Kotelnich ma a Venezia, dove il film è stato presentato nel 2003, in una sezione parallela della mostra. Il produttore aveva invitato alla proiezione il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra, e io ero molto emozionato, molto in soggezione all’idea di far vedere il mio film a un uomo che aveva scritto tanti capolavori di Fellini, Antonioni, Francesco Rosi, dei fratelli Taviani, di Anghelopoulos e di Tarkovskij. Dopo la proiezione siamo andati tutti insieme a bere qualcosa in un bar all’aperto del Lido. Tonino Guerra, con i suoi baffi bianchi, il suo berretto e il suo gilet di velluto a coste, sembrava un patriarca romagnolo che amministrasse la giustizia sotto una quercia. Aspettavamo la sua sentenza, che alla fine ha pronunciato. Il film non gli era piaciuto. Lo aveva trovato confuso e insieme lugubre – come potete immaginare, io ero schiantato –, ma gli riconosceva una qualità: gli attori, in particolare il tipo dell’FSB, erano straordinari. Ho detto, timidamente: «Ma non è un attore. È davvero uno dell’FSB. Non ci sono attori nel film, soltanto i veri abitanti di Kotelnich». «Sul serio?» ha detto Tonino Guerra, diffidente. Ho confermato: sul serio. Tuttavia, non sembrava convinto. Più gli ripetevo ciò che a me sembrava palese, più sospettava che volessi prenderlo per i fondelli, e alla fine ho deciso che quello era il più bel complimento che mi si potesse fare e mi sarebbe mai stato fatto per il film.

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C’è un altro motivo per cui l’osservazione di Max mi ha turbato e mi ha aperto gli occhi. È il libro al quale stavo lavorando durante il mio soggiorno a Santa Maddalena. Soltanto tre mesi fa non ne avrei parlato, perché il libro non era terminato, e so per esperienza che non bisogna parlare dei libri che si stanno scrivendo finché non sono terminati: la minima confidenza, soprattutto quando è un po’ euforica, la paghi ogni volta con una settimana di scoramento. Ma ora il libro è finito, uscirà in Francia quest’autunno, e in Italia la prossima primavera. Posso dunque parlarne, e non soltanto posso parlarne, ma ho voglia di parlarne.

Non è facilissimo farlo in poche parole, perché è un grosso libro al quale ho dedicato sette anni della mia vita. Diciamo che è un racconto sugli albori del cristianesimo. È ambientato tra il 50 e il 100 dopo Cristo, quando nessuno immaginava ancora di vivere «dopo Cristo». I fondali sono la Grecia, Gerusalemme e Roma, e le star quegli uomini che noi chiamiamo san Paolo, san Pietro, san Giovanni ecc. ma che a quell’epoca si chiamavano semplicemente Paolo, Pietro, Giovanni ecc. Non erano santi con le aureole, ma uomini, complicati e fallibili come tutti noi. Come tutti noi, litigavano, erano invidiosi, ognuno di loro era convinto di saperne più degli altri. L’unica cosa che avevano in comune era una fede estremamente strana, e la cosa più strana di tutte è che questa fede che di norma sarebbe dovuta scomparire con loro è perdurata, in meno di tre secoli ha divorato dall’interno l’impero romano, e ancora oggi è seguita da un quarto degli uomini che vivono sulla terra.

Questa fede, come tutti sapete, si fonda sulla vita, l’insegnamento, la morte e, secondo i credenti, la resurrezione di un predicatore galileo chiamato Gesù di Nazareth. Si può pensare quel che si vuole di lui e di quello che del suo messaggio hanno fatto gli uomini, ma non si può negare che Gesù sia una delle figure più importanti della nostra storia. Non penso di allontanarmi molto dal vero se dico che è, fra tutte le figure umane, quella che è stata più spesso rappresentata. Bene, tutte queste rappresentazioni, pittoriche, letterarie, cinematografiche, si basano su quattro brevi racconti che messi in fila stanno in un libro tascabile e sono stati scritti grossomodo tra i cinquanta e gli ottant’anni dopo la morte di Gesù, da quattro autori molto diversi. Mi è venuta voglia di sapere chi fosse uno di quegli autori. Ho scelto Luca, per ragioni che non spiegherò qui e che capirete, spero, se leggerete il mio libro. Il quale è diventato quindi una biografia dell’evangelista Luca. È una biografia in gran parte immaginaria, poiché non sappiamo quasi niente di lui. Ho cercato di immaginare chi era Luca, che cosa pensava, in che cosa credeva. Ho cercato di ricostruire il contesto sia materiale sia mentale nel quale ha vissuto. E poiché quello che si chiama Vangelo secondo Luca è una specie di ritratto di Gesù, mi sono ritrovato a fare il ritratto del ritrattista.

Allora, per forza di cose, mi sono posto il problema della somiglianza. Il Gesù ritratto da Luca somiglia al Gesù reale? La domanda non è senza senso perché il Gesù reale non è un personaggio immaginario. È esistito. Che sia resuscitato e fosse figlio di Dio è un altro discorso, che riguarda soltanto la fede. Ma che sia vissuto in quella terra che oggi si chiama Israele, che abbia respirato la nostra stessa aria, e mangiato, pisciato, cacato come ogni altro essere umano, questo nessuno lo mette in dubbio, a parte qualche ateo idiota che sbaglia bersaglio. 

Prendiamo una qualsiasi scena famosa della sua vita: per esempio, la comparsa davanti al governatore romano Ponzio Pilato. Questa scena, ce la possiamo soltanto immaginare: resta il fatto però che non è immaginaria. Non è nemmeno dubbia, come la resurrezione di Lazzaro o l’adorazione dei Magi. Ci sono storici romani che la confermano. È realmente avvenuta. Si è svolta in un punto dello spazio e del tempo che non conosciamo con precisione assoluta ma che nondimeno era, come tutti i punti dello spazio e del tempo, un punto assolutamente preciso. Era un certo luogo, in una certa ora. Il tempo era in un certo modo. Quei due uomini, Gesù e Ponzio Pilato, non erano figure mitiche, divinità o eroi, sospese in un mondo di fantasia in cui, poiché nulla è reale, tutto è possibile. Erano un funzionario coloniale e un esaltato indigeno: uomini come voi e me, che avevano una certa faccia, portavano certi abiti, parlavano con una certa voce. Il loro incontro non si è svolto, come le cose della nostra fantasia, in un modo o in un altro, infinitamente variabili, ma come si svolge ogni cosa sulla terra, in un certo modo che esclude tutti gli altri; e di questo modo, di questo unico modo che ha avuto il privilegio di passare dal virtuale al reale, in realtà noi non sappiamo quasi nulla. Ma quell’incontro c’è stato. Ci sono cresciute sopra tonnellate di fiction e di leggende, ma esso non appartiene alla fiction o alla leggenda: appartiene alla realtà. E dunque può essere illusorio, ma perfettamente legittimo, cercare di darne una rappresentazione realistica.

Come diceva Kafka: «Io sono molto ignorante: cionondimeno, la verità esiste».

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Tranne forse Giovanni, nessuno dei quattro evangelisti è stato testimone diretto degli eventi che racconta, nessuno nemmeno cerca di farlo credere. Luca scrive cinquant’anni dopo la morte del protagonista, e dice con chiarezza che il suo racconto è di seconda o terza mano. Ciò non toglie che lo leggiamo, come leggiamo qualsiasi storico, chiedendoci di ogni particolare: è vero? Questa frase che Luca attribuisce a Gesù, Gesù può averla pronunciarla? Questo episodio è accaduto davvero? Questo tratto caratteriale è autentico?

Più mi addentravo nei Vangeli, quello di Luca e gli altri tre, più percepivo la differenza di cui ho parlato fra i ritratti dal vero e i ritratti immaginari. Fra i personaggi, i discorsi, gli aneddoti che naturalmente possono essere stati modificati ma corrispondono a qualcosa di reale e altri che appartengono al mito o all’iconografia devota. Faccio un altro esempio: l’arresto di Gesù sul Monte degli Ulivi. Anche in questo caso, siamo dentro il più crudo realismo. C’è uno squadrone della morte che di notte, con un colpo di mano, va ad arrestare un guerrigliero. Lanterne cieche, manganelli, penombra: il registro è quello del Tintoretto, o del Caravaggio. Uno degli uomini del guerrigliero cerca di fare resistenza. Tira fuori il coltello e, quasi alla cieca, mozza l’orecchio a un soldato. Questo soldato, ci dice l’evangelista Giovanni, si chiamava Malco. L’evangelista Luca aggiunge che Gesù ha toccato la sua ferita e lo ha guarito. In questa breve scena, io vedo la lampante giustapposizione di due registri. All’orecchio mozzato ci credo, e credo anche che il tipo a cui è stato mozzato l’orecchio si chiamasse Malco: altrimenti, perché dirlo? Invece non credo all’orecchio riattaccato per miracolo, e non soltanto perché sono scettico di fronte ai miracoli: soprattutto perché è, senza dubbio, uno di quei particolari che vengono inventati a scopo edificante, e non riportati semplicemente perché sono accaduti.

Quel che mi chiedo, in fondo, è se esiste un criterio interno per poter dire di un ritratto che è somigliante, di un aneddoto che è autentico. Io penso di sì, ma devo ammettere che si tratta di un criterio squisitamente soggettivo: è quello che si dice «suonare bene», è quello che si dice «accento di verità». Lo senti, non lo puoi dimostrare. C’è però un altro criterio, più oggettivo, quello che gli esegeti definiscono «criterio dell’imbarazzo». Una cosa che l’autore provava imbarazzo a mettere per iscritto, una cosa che avrebbe volentieri omesso e invece ha mantenuto per scrupolo, pensiamo che abbia buone probabilità di essere vera. Quando, per esempio, Marco ci racconta di Gesù che i suoi fratelli e le sue sorelle lo giudicavano pazzo e volevano farlo rinchiudere, ci crediamo. Quando ci mostra i discepoli che litigano come straccivendoli invece di gareggiare in nobiltà d’animo e pietà, ci crediamo. E quando i quattro evangelisti, per una volta concordi, ci dicono che quella notte, dopo l’arresto, Pietro, il più vecchio e fedele discepolo di Gesù, la pietra su cui questi ha voluto costruire la sua chiesa, ha rinnegato per tre volte il suo signore, crediamo anche a questo, e se ci crediamo è soprattutto perché non è lusinghiero per Pietro. È proprio come nella pittura. Se un pittore di corte fa il ritratto del re e gli dà un volto nobile, pieno di energia e di luminosa serenità, pensiamo che forse è somigliante, e forse no: non ne sappiamo nulla. Mentre se lo dipinge strabico e con un’enorme verruca sul mento, possiamo essere certi di una cosa: che il re era proprio strabico e aveva una verruca sul mento. In fondo, crediamo somigliante ciò che è, se non decisamente brutto, almeno imperfetto.

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Io non ho fatto il ritratto di Gesù: non mi sarei azzardato. Ho tentato, più modestamente, di fare quello di uno dei suoi quattro ritrattisti ufficiali. Ho tentato di dipingere un Luca plausibile, se non somigliante, ed è stata un’impresa avventata, dal momento che si tratta di un uomo di cui non solamente non sappiamo nulla ma che per di più è vissuto diciannove secoli fa. Mi sono chiesto a lungo come fare un romanzo storico che non suoni troppo falso. Ho riletto i capolavori del genere, fra cui uno dei più famosi è Le memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar. E vorrei citarvi, anche se è un po’ lungo, il testo in cui la Yourcenar spiega il suo procedimento: 

«Le regole del gioco: impa rare tutto, leg gere tutto, in formarsi di tutto e, al tempo stesso, appli care al pro prio fine gli eser cizi di Igna zio di Loyola o il metodo dell’asceta indù, che si este nua anni ed anni per met ter a fuoco con mag gior pre ci sione l’immagine che ha creato sotto le pal pebre chiuse.

«Attra verso migliaia di schede, per se guire l’attualità dei fatti, cer car di ren dere a quei volti mar mo rei la loro mobi lità, l’agilità della cosa viva. Quando due testi, due affer mazioni, due idee si con trap pon gono, diver tirsi a conciliar le anzi ché annul larle una attra verso l’altra; rav vi sare in esse due aspetti, due stadi suc ces sivi dello stesso fatto, una realtà con vin cente appunto per ché com plessa, umana per ché multipla.

«Sfor zarsi di leg gere un testo del II secolo con occhi, ani ma, sensi del II secolo; immer gerlo in quell’acqua madre che sono i fatti con tem po ra nei; eli mi nare fin ché è possi bile tutte le idee, i sen ti menti che si sono accu mu lati, stra to su strato, tra que gli esseri e noi; e, al tempo stesso, ser virsi con pru denza, o sol tanto a titolo di studi pre pa ra tori, della pos si bi lità di acco stare e rita gliare pro spet tive nuove, ela bo rate poco a poco attra verso tanti secoli e tanti avveni menti che ci sepa rano da quel testo, da quell’avvenimento, da quel per so nag gio. Uti liz zarli, in certo modo, come al trettante tappe su la via del ritorno verso un punto parti colare del tempo; imporsi d’ignorare le ombre che vi si so no pro iet tate suc ces si va mente, non per met tere che la su-perfice dello spec chio sia appan nata dal vapore d’un alito, pren dere come punto di con tatto con que gli uomini sol tanto ciò che c’è di più dura turo, di più essen ziale in noi, sia nelle emo zioni dei sensi sia nelle ope ra zioni dello spiri to: anche loro, come noi, sgra noc chia rono olive, bev vero vino, si impia stric cia rono le dita di miele, lot ta rono con tro il vento pun gente, con tro la piog gia acce cante, l’estate cer ca rono l’ombra di un pla tano, gioi rono, pen sa rono, in vecchiarono, morirono».[1]

Io lo trovo un testo bellissimo. Approvo questo metodo, allo stesso tempo orgoglioso e umile. L’elenco così poetico delle invarianti – «anche loro, come noi, sgra noc chia rono olive, bev vero vino, si impia stric cia rono le dita di miele, lot ta rono con tro il vento pun gente, con tro la piog gia acce cante, l’estate cer ca rono l’ombra di un pla tano, gioi rono, pen sa rono, in vecchiarono, morirono» –, questo elenco mi dà da pensare, perché sfiora un problema enorme: che cosa c’è di eterno, immutabile, in ciò che Marguerite Yourcenar chiama «emozioni dei sensi» e «operazioni dello spirito»? Che cosa, di conseguenza, non appartiene alla storia? Il cielo, la pioggia, la sete, il desiderio che spinge uomini e donne ad accoppiarsi, d’accordo, ma la storia, vale a dire il mutevole, s’insinua velocemente nella percezione che abbiamo noi di queste cose, nell’opinione che ce ne facciamo, e non smette di conquistare posizioni che credevamo fuori della sua portata. Personalmente non seguo Marguerite Yourcenar quando parla di ciò che chiama «ombre che […] si sono proiettate successivamente» o alito sulla superficie dello specchio: cioè la presenza dell’autore d’oggi. Io invece sono profondamente convinto che questa sia qualcosa d’inevitabile. Sono convinto che l’ombra proiettata in un secondo momento, la si vedrà sempre, che si vedranno sempre i trucchi con cui si cerca di cancellarla, e che perciò è meglio accettarla e metterla in scena. È come quando si gira un documentario. O si cerca di far credere che si mostrano le persone come sono «veramente», vale a dire come sono quando noi non siamo lì a riprenderle. O si ammette che il fatto di riprenderle modifica la situazione, e ciò che si riprende allora è proprio questa nuova situazione. A me non disturbano quelli che in termini tecnici si chiamano «sguardi in macchina»: al contrario, li tengo, attiro anzi l’attenzione su di essi. Faccio vedere cosa indicano questi sguardi, ossia quello che nel documentario classico si presume debba restare fuori campo: la troupe mentre gira, io che dirigo la troupe, e i nostri diverbi, i nostri dubbi, i nostri complicati rapporti con le persone che riprendiamo. Anche in questo caso, non dico che sia la scelta migliore. Sono due scuole diverse, e tutto ciò che si può dire a favore della mia – la scuola del sospetto, del dietro le quinte e del making of – è che è più in sintonia con la sensibilità moderna di quanto non lo sia la pretesa allo stesso tempo altezzosa e ingenua di Marguerite Yourcenar di annullarsi per mostrare le cose come sono nella loro essenza e nella loro verità.

Il buffo è che mentre Ingres o Delacroix cercavano di essere realisti quando dipingevano i romani di Tito Livio o gli ebrei della Bibbia, i maestri antichi mettevano in pratica in maniera ingenua il credo modernista e lo straniamento brechtiano. Se qualcuno gliel’avesse chiesto, molti di loro probabilmente avrebbero ammesso che, a pensarci bene, la Galilea dell’epoca di Gesù non doveva somigliare alle Fiandre o alla Toscana del loro tempo. Ma per lo più non si ponevano il problema. La ricerca del realismo storico non rientrava nel loro schema mentale, e penso che in fondo avessero ragione. Erano veramente realisti nella misura in cui ciò che rappresentavano era veramente reale: erano loro stessi, era il mondo in cui vivevano. Gli interni domestici della Santa Vergine nei retabli dell’annunciazione erano quelli del pittore o del suo committente. Gli abiti dipinti con tanta cura, con un grande amore per i particolari e i materiali, erano quelli che portavano la moglie del primo o l’amante del secondo. E il pittore non aveva remore a raffigurare se stesso nel quadro. Ce n’è uno di questo tipo, che mi piace molto, dipinto dal grande maestro fiammingo Roger van der Weyden, in cui è rappresentato san Luca, il protagonista del mio libro, mentre ritrae la Vergine – perché secondo una tradizione totalmente priva di fondamento storico, ma che trovo stupenda, san Luca faceva il pittore: è addirittura il patrono dei pittori. Il volto di san Luca nel quadro di Roger van der Weyden è uno di quelli che non lasciano dubbi: è una persona reale. E dagli storici dell’arte apprendiamo che non soltanto è una persona reale: è lo stesso Roger van der Weyden. Il suo san Luca è un autoritratto. Il giorno in cui l’ho appreso sono stato molto contento perché, nel mio libro, ho fatto la stessa identica cosa. Sotto le sembianze di san Luca ho dipinto me stesso. Potrei dire, come Flaubert di madame Bovary: «Luca sono io», e mi sembra in tutta onestà di aver fatto la scelta più sensata. Probabilmente il mio Luca non somiglia al vero Luca, nessuno sa a cosa somigliasse il vero Luca, ma almeno somiglia a me: meglio che niente. L’importante, credo, non è a chi si somiglia: quel che conta è essere somiglianti.

[1] Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano seguite dai Taccuini di appunti, trad. it. di Lidia Storoni Mazzolani, Torino, Einaudi, 2002, pp. 289-90.

traduzione di Francesco Bergamasco