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IL VESTITO DEI LIBRI

Jhumpa Lahiri

10 Giugno 2015

“Amico, questo non è un libro; chi tocca questo libro tocca un uomo.”

(Walt Whitman, Foglie d’erba)

1.  Il fascino della divisa

Nella casa della famiglia di mio padre a Calcutta, dove andavo in visita da piccola, di mattina guardavo i miei cugini vestirsi. Si preparavano per la scuola; io, invece, ero in vacanza. Indossavano, ogni giorno, dopo aver fatto il bagno e prima di colazione, la stessa cosa: una divisa.

Frequentavano due scuole diverse per cui le rispettive divise erano differenti. Mio cugino portava pantaloni corti di cotone blu. Mia cugina, qualche anno più grande, una gonna arancione. A parte i due colori il resto della divisa era identico: camicia bianca con maniche corte, calzini bianchi, scarpe nere.

C’erano probabilmente, nell’armadio, due paia degli stessi pantaloni blu, due gonne arancio. Bastava mettere quelli puliti e stirati. Prima di partire per l’India mia madre comprava parecchie paia di calzini bianchi in America, sapendo che sarebbero stati graditissimi da mia zia.

Per quanto fossero semplici e funzionali, trovavo le divise dei miei cugini splendide, fascinose. Per strada, sugli autobus e sui tram, mi colpiva questo linguaggio visivo obbligatorio, grazie al quale si potevano identificare e classificare migliaia di allievi in una grandissima e popolosa città. Ogni uniforme significava l’appartenenza ad una scuola o a un’altra. Ogni mio coetaneo a Calcutta aveva, ai miei occhi, un’identità forte e allo stesso tempo godeva di una sorta di anonimato. L’effetto della divisa è questo.

Avrei voluto una divisa anch’io. Quando andavo in sartoria per farmi fare dei nuovi abiti – un’avventura particolare che potevo vivere solo in India dove, negli anni Settanta, era ancora più comune indossare vestiti fatti su misura anziché comprarli in negozio – ero spesso tentata di chiederne una. Era un desiderio folle il mio; un vestito del genere non mi sarebbe mai servito. In America frequentavo una scuola pubblica dove ciascuno metteva ciò che voleva. E io ero tormentata da questa scelta, da questa libertà.

Mi angosciava, da bambina, esprimermi attraverso i miei vestiti. Sentendomi già peculiare, cospicua per via del mio nome, della mia famiglia, del mio aspetto fisico, volevo assomigliare agli altri in tutto il resto. Sognavo uguaglianza, perfino invisibilità. Invece, costretta a scegliermi uno stile, mi sentivo malvestita, un’eccezione anziché la regola.

Non aiutava il fatto che alcune mie compagne di classe mi prendessero di mira, trovando i miei vestiti leggermente strambi. Dicevano: che brutto abbinamento, quelle due fantasie insieme fanno a pugni, non lo sapevi? Non si portano pantaloni a zampa, non sono più di moda.Ridevano. Per cui, per molti anni, aspettando lo scuolabus, ho iniziato la mia giornata in uno stato di umiliazione.

Schernivano me, ma implicitamente anche i miei genitori. Essendo stranieri, cercando sempre di risparmiare, compravano i miei vestiti senza fare caso alla moda, alla norma. Li acquistavano scontati alla fine della stagione, oppure usati, sapendo che nel giro di un anno mi sarebbero già stati piccoli. Inoltre, mia madre non condivideva il gusto delle madri americane. Non entrava negli stessi negozi, non le interessava vestirmi come le altre figlie. Ecco perché mi sembrava che una divisa sarebbe stata la soluzione.

Per me l’abbigliamento ha sempre avuto un significato in più. Mia madre, che perfino oggi, quasi cinquant’anni dopo aver lasciato l’India, indossa soltanto gli indumenti tradizionali del suo Paese, tollerava a malapena i miei vestiti americani. Non trovava carini i miei jeans, le mie magliette. Disapprovava, quando ero adolescente, che volessi mettere una gonna corta, tacchi alti. Più crescevo più ci teneva che anch’io portassi vestiti indiani o, almeno, poco provocanti. Ci teneva che diventassi una donna bengalese come lei.

Ogni volta che andavamo a una festa da un’altra famiglia bengalese, a qualche occasione o celebrazione importante, mi chiedeva, mi supplicava, infine mi forzava a mettere un abito prettamente indiano. Se protestavo si arrabbiava. Per accontentarla cedevo, ma allo stesso tempo mi innervosivo, mi imbronciavo. Non appena indossavo quei vestiti mi sentivo ancora più diversa, straniera come lei. Sentivo addosso un’identità imposta. Quegli abiti, che avevano un loro spazio a parte nell’armadio, avevano una qualità discrepante, sgargiante: colori che mi sembravano troppo vivaci, tessuti radicati in un altro Paese. In realtà erano più eleganti dei miei vestiti quotidiani, ma ero insofferente nei loro confronti. Sapevano di un luogo lontanissimo. Non pesavano quasi niente, eppure pesavano su di me.

Attraverso questa lotta aspra tra me e mia madre, di lunga durata e di nessuna conclusione chiara, ho provato sulla mia pelle quanto i nostri vestiti, così come una lingua, come il cibo, esprimano la nostra identità, cultura, appartenenza. Fin da piccola ho imparato che ciò che indossavo mi rendeva, ovunque fossi, “altra”. Perfino a Calcutta, quando uscivo con i miei cugini, a cui fisicamente assomiglio, ero percepita come straniera, apostrofata spesso in inglese. Quando chiedevo il perché loro mi rispondevano, alzando le spalle: saranno i tuoi vestiti.

Da adulta mi vesto come voglio; decido io come mi presento. Ma resta l’ombra di quell’ansia del passato, quella paura di essere malvestita, sbagliata, giudicata. Ogni tanto, travolta dal mio guardaroba, dalla pressione di dover scegliere la cosa giusta, mi chiedo ancora se non sarebbe più semplice adottare una sorta di divisa.

Quando, a trentadue anni, ho iniziato a pubblicare libri, ho scoperto che un’altra parte di me andava vestita e presentata al mondo. Ma ciò che viene messo addosso alle mie parole – le copertine dei miei libri – non è una scelta mia.

Mi trovo a volte costretta ad accettare delle copertine che trovo sgradevoli, problematiche, deludenti. Tendo a cedere. Mi dico: lascia perdere, non vale la pena combattere. Ma poi ne resto afflitta, risentita.

Quella che in italiano si chiama sovraccoperta in inglese si chiama anche “jacket”, giacca. Una giacca fatta su misura, concepita e creata apposta per coprire e confezionare un libro. Dovrebbe calzare a pennello. Eppure dal mio punto di vista la gran parte delle mie copertine “mi stanno male”, per cui talvolta credo, anche da scrittrice, che forse una divisa sarebbe la soluzione.

2. Perché una copertina?

La definizione della parola copertina nel mio dizionario italiano è abbastanza breve: “Involucro esterno di carta o cartoncino che ricopre un libro, un quaderno, una rivista”. La mia definizione, però, è molto più estesa, con altre sfumature, altre declinazioni.

Una copertina si fa viva solo quando il libro è terminato, solo quando sta per fare il suo ingresso nel mondo. Segna la nascita del libro, e dunque la fine della mia strada creativa. Conferisce al libro un sigillo di indipendenza, una vita propria. Indica a me che il mio lavoro è concluso. Quindi mentre per la casa editrice la copertina significa l’arrivo del libro, per me invece significa un addio.

La copertina vuol dire che il testo dentro è pulito, definitivo. Non è più qualcosa di selvaggio, crudo, mutevole. D’ora in poi il testo resta fisso, eppure la copertina ha una valenza metamorfica. Fa dello scritto un oggetto, qualcosa di concreto, da stampare, da diffondere, e alla fine da vendere.

Se il processo dello scrivere è il sogno, questo rappresenta il risveglio.

La notizia che una copertina sta per arrivare suscita in me un’emozione ambivalente. Da un lato mi commuove perché ho portato a termine un libro. Dall’altro mi agita. Mi rendo conto, quando compare la copertina, che il libro sarà letto. Sarà accolto, criticato, analizzato, dimenticato. Benché esista per proteggere le mie parole l’arrivo della copertina, facendo da ponte tra me e il pubblico, mi fa sentire vulnerabile.

La copertina mi fa capire che il libro è già stato letto. Perché in realtà non è semplicemente il suo primo vestito ma anche una sua prima interpretazione, sia visiva sia promozionale. Rappresenta una lettura collettiva del disegnatore e di varie persone della casa editrice: c’entrano le loro visioni, opinioni, desideri. So che prima di un lancio la copertina va discussa, va ragionata, va approvata da tanti.

Il primo incontro con una mia copertina, per quanto sia emozionante, è sempre sconvolgente. Per quanto sia efficace o intrigante, esiste sempre, tra di noi, uno scarto, uno squilibrio. La copertina conosce già il mio libro, ma io non la conosco ancora. Cerco di abituarmi, di avvicinarmi.

Le mie reazioni sono varie, viscerali. Mi fa ridere, mi fa venire da piangere. Mi deprimo, mi confondo, m’infurio. Alcune non riesco a decifrarle, mi lasciano perplessa. Com’è possibile, mi chiedo, che il mio libro sia inquadrato in maniera così brutta, oppure banale?

La copertina giusta è come un bel cappotto, elegante e caldo, che avvolge le mie parole mentre camminano per il mondo, mentre vanno a un appuntamento con i miei lettori.

La copertina sbagliata è un costume ingombrante, soffocante. Oppure una maglia troppo leggera, inadeguata.

Una bella copertina è lusinghiera. Mi sento ascoltata, intesa.

Una brutta copertina mi sembra un nemico, mi è odiosa.

Esiste una copertina tremenda di un mio certo libro che suscita in me una reazione quasi violenta. Ogni volta che devo autografare quell’edizione mi viene l’impulso di strapparla via dal volume.

Più ci rifletto più mi convinco che una copertina sia una sorta di traduzione, ossia un’interpretazione delle mie parole in un’altra lingua, quella visiva. Rappresenta il testo ma non lo è. Non deve essere troppo letterale. Deve cogliere il libro a modo suo.

Così come una traduzione la copertina può essere fedele al libro, oppure sviante. In teoria, come la traduzione, dovrebbe servire al testo. Ma la dinamica non è sempre questa. Una copertina può essere anche soverchiante, può dominare.

Comunque vada impone un rapporto intimo tra l’autore e l’immagine. E proprio per questo può suscitare un senso di alienazione totale. Se non mi piace voglio subito allontanarmi. Ma non è possibile. La copertina tocca le mie parole, mi sta addosso.

Questo momento mi insegna ad abbandonare il libro. Significa una perdita di controllo.

*

La copertina è superficiale, trascurabile, irrilevante rispetto al libro. La copertina è un componente vitale del libro. Bisogna accettare il fatto che entrambe queste frasi siano vere.

Mi colpisce sempre vedere come sulle pagine di “La Lettura” del Corriere della Sera, alle copertine venga assegnato un voto, così come allo “stile” e alla “storia” di ogni volume recensito. Inizialmente ho pensato, non è giusto. Perché una tale attenzione? Che importa la veste grafica, nel giudizio su un libro? Poi mi sono ricreduta. Ha senso. Una volta che esiste fa parte del libro, per cui fa effetto, o positivo o negativo. O attrae o respinge il lettore.

Diamo per scontato che ogni libro abbia una copertina. Senza, è considerato nudo, incompleto, per certi versi inaccessibile. Manca una porta per poter entrare dentro il testo. Manca un viso.

Da piccola scrivevo i miei primi “romanzi” in una serie di quaderni. Disegnavo, quindi, per ogni storia, una copertina. Mettevo gli elementi essenziali: il titolo dell’opera e il nome dell’autrice. Miravo ad una grafica avvincente. Talvolta c’era anche un’illustrazione, o un ritratto della protagonista. In altri casi no.

Perché esiste la copertina? Per prima cosa per racchiudere le pagine. Secoli fa, quando i volumi erano oggetti rari e pregiati, si usavano materiali di gran lusso: cuoio, oro, argento, avorio.

Oggi il ruolo della copertina è molto più complicato. Serve ormai per individuare il libro, per inserirlo in uno stile o in genere. Per abbellirlo, per renderlo efficace nella vetrina di una libreria. Per incuriosire e far fermare un passante per strada, attirandolo dentro affinché prenda in mano il libro, affinché lo compri.

Appena indossa la copertina il libro acquisisce una nuova personalità. Esprime dunque già qualcosa prima di essere letto, così come un vestito comunica qualcosa di noi prima ancora che parliamo.

Una copertina mette subito in gioco un’aspettativa. Introduce un tono, un comportamento, anche quando non c’è alcuna corrispondenza con il libro. Ho appena detto che è come un viso, ma è anche una maschera, qualcosa che nasconde ciò che c’è dietro. Può sedurre il lettore, può tradirlo. Come un orpello, può ingannare.

Si potrebbe dire che rimetta in gioco la contrapposizione tra vero e falso, apparenza e realtà.

*

La copertina conferisce al libro non solo un’identità ma due. Introduce un altro elemento espressivo che prescinde dal testo. C’è quello che esprime il libro, e quello che esprime la copertina. Ecco perché si può amare la copertina e odiare il libro, e viceversa.

Confesso di aver comprato, più di una volta, un libro semplicemente per via della copertina, perché non riuscivo a resistere, perché ne restavo stregata. Credevo nell’immagine anche se il contenuto non mi toccava così tanto. Ho in America una collezione di tascabili con le copertine disegnate da Edward Gorey, un celebre illustratore americano i cui disegni macabri mi hanno sempre appassionato. Se ne vedo uno in una libreria dell’usato, qualunque titolo sia, lo compro subito. E mi rendo conto che in questo caso il valore della copertina supera per me quello del testo.

Dunque anche la copertina possiede un’identità indipendente. Ha una presenza, manifesta un potere suo.

A Roma, dove vivo da pochi anni, non ho molti libri. Quando siamo arrivati in Italia ne avevamo con noi pochissimi. Il nostro appartamento ha una grande scaffalatura, molto capiente. Sarebbe stato assurdo, anche triste, sistemarci sopra una ventina di volumi. Invece ho deciso, per riempire lo spazio, di esporli di piatto. Di conseguenza, negli ultimi anni, passo molto tempo a casa godendomi certe copertine, e mi accorgo del loro effetto su di me.

Ormai quella libreria è diventata una sorta di installazione in corso che riflette il percorso della mia lettura, la mia vita romana. Mi fanno compagnia un ritratto dipinto da Tiziano, un ritratto fotografico della poetessa Patrizia Cavalli, alcune fotografie di Marco Delogu. Espongo le copertine di vari romanzi e libri di saggistica dei miei nuovi amici italiani, come se fossero immagini incorniciate di una mia nuova famiglia. Compensano, i miei libri a Roma, la mancanza di quadri, disegni, e altre belle cose alle pareti. Nel nostro appartamento, affittato già arredato, un po’ vuoto, carente di effetti personali, i volumi rappresentano il mio gusto, la mia presenza.

Fa impressione, mostrare le copertine rispetto ai dorsi. Di solito i libri messi in fila su uno scaffale sono discreti, piuttosto riservati. Restano sullo sfondo, confortanti ma abbastanza neutri. Le copertine invece sono estroverse, spigliate, specifiche. Ci richiamano all’attenzione. Dicono: guardaci.

3. Corrispondenza e collaborazione

Vestire un libro è un’arte, non c’è dubbio. Un volume stampato resta un incrocio tra due mezzi espressivi. Ogni copertina implica la mano di un artista. E questo abbinamento, questa sintonia tra scrittore e artista mi interessa molto.

Un esempio che mi ha sempre colpito è la collaborazione tra Virginia Woolf e sua sorella, Vanessa Bell, che disegnò una serie di copertine – ormai iconiche – per quasi tutte le prime edizioni che Woolf pubblicò per la Hogarth Press. Questa casa editrice indipendente fu fondata nel 1917 proprio per poter pubblicare i libri di Woolf, di suo marito Leonard, e dei loro amici e conoscenti al di fuori dei meccanismi commerciali dell’editoria e al riparo dalla censura. I libri erano stampati inizialmente a mano, il torchio da stampa poggiato sul tavolo da pranzo, a casa.

Le copertine di Bell sono potenti, poco convenzionali, moderniste. Esprimono perfettamente il distillato sperimentale delle opere di Woolf. Eppure di solito Bell non leggeva nemmeno il libro per intero. Glielo raccontava Woolf in modo che sua sorella potesse creare un’immagine corrispondente. Bastava un dialogo tra l’autrice e l’artista. Il critico S. P. Rosenbaum definisce le copertine di Bell “eco ottiche” del testo, citando un’espressione di Henry James.

Da scrittrice cerco, spesso invano, questa “eco ottica”. Vorrei anch’io che la copertina riflettesse il senso e lo spirito del mio libro. Mi farebbe piacere, almeno una volta, se la disegnasse qualcuno che mi conosca bene, che conosca approfonditamente tutta la mia opera, che ci tenga.

Io non ho mai parlato con i grafici delle mie copertine. Non li conosco, non sono coinvolta. Vedo il risultato finito che ricevo per posta, ormai in allegato a una email: posso accettarlo o rifiutarlo, magari modificarlo un po’. Mi chiedo se l’artista abbia letto tutto il libro o solo un capitolo, solo qualche pagina prima di disegnare qualcosa. Mi chiedo se gli sia piaciuto il libro. Non mi è chiaro.

Non conoscendo la persona dietro la copertina, non mi sento a mio agio nel criticarla. Di solito la casa editrice fa da tramite. Mi inviano il frutto del suo lavoro, e fanno sapere all’artista le mie impressioni. Ma non c’è modo di rivolgermi direttamente all’artista. Resta, chiunque sia, una figura misteriosa, appartata. Resta, tra noi, una distanza.

*

Ogni autore reagisce alla propria copertina, ma pochi ne parlano apertamente. Qualche mese fa ho scoperto un testo breve ma pungente su quest’argomento, scritto da Lalla Romano. In un suo saggio intitolato “Le copertine Einaudi”, pubblicato nella raccolta Un sogno del nord, analizza e valuta le copertine della sua principale casa editrice. Scrive: “A me che vengo dalla pittura, per cui il fatto visivo non è solo intrigante ma costituivo, riesce molto difficile amare un libro brutto (come oggetto), tanto più che spesso è tale perché vuole essere bello”. Sono rimasta colpita dalle sue parole, e sono loro ad avermi spinto a scrivere questo discorso.

La Romano, come me, cerca la “perfetta rispondenza con lo stile del libro”. Lei partecipava, come Woolf, alla decisione, suggeriva certe immagini, disegni, quadri. Dallo scambio tra l’autrice e l’artista scaturiva lo scambio ideale tra copertina e testo.

Non abitiamo in un mondo in cui la copertina possa semplicemente rispecchiare il senso, lo stile del libro. Oggi la copertina regge sempre di più sulle spalle un altro peso. Lo scopo è molto più commerciale che estetico. Riesce o fallisce in un contesto di mercato.

Nell’editoria di massa contemporanea la copertine contengono, al di là del titolo e del nome dell’autore, oltre un disegno, molte altre informazioni: premi e riconoscimenti ottenuti in passato, citazioni di scrittori e critici ai quali il libro è piaciuto, dati di classifica. È diventata un’etichetta che elenca quasi tutti gli ingredienti del libro. A volte si aggiunge la fascetta, una sorta di cintura sopra la giacca per indicare per esempio che il volume è alla seconda edizione, alla quarta, alla nona. O per imporre all’attenzione del lettore un altro “strillo” allettante, altri dati, altri giudizi.

Credo che l’aspettativa che oggi l’editoria accumula sulle copertine sia sproporzionata. Devono raggiungere e conquistare il lettore frastornato e smarrito in una grande libreria: dagli scaffali strapieni, o su un un bancale coperto di titoli, va scelto questo e solo questo. Le energie, tutte le strategie che stanno dietro una copertina sottolineano un fatto abbastanza deprimente: il numero spaventoso di libri pubblicati ogni anno al mondo, e i pochi che vengono alla fine comprati, letti davvero.

Nonostante il suo ruolo esaltato la copertina, non è neanche, alla fine, molto rispettata. Di frequente le si dà la colpa se un libro non vende bene. Sento spesso commenti del genere da parte degli editori: “Il libro è bello, peccato che sia sbagliata la copertina”.

Essere vestiti male è sempre una condanna. Ma come fosse un vestito sbagliato, si può togliere una copertina e metterne un altra. So che in America, se la prima edizione non vende abbastanza, di norma cambiano la copertina per il tascabile, e in Italia non è diverso. Ogni tanto una proposta di copertina mi piace, ma poi la casa editrice mi dice: “Abbiamo deciso di andare in un’altra direzione”. Resta qualcosa di staccabile, intercambiabile. A dispetto del suo potere, se non serve a vendere il libro, non vale niente.

4. Il libro nudo

Andiamo in un’altra direzione, e parliamo del libro nudo.

Non possedevo molti libri da ragazza. Andavo in biblioteca dove i libri erano spesso spogliati: senza giacca, senza alcuna immagine. Incontravo solo la copertina rigida, le pagine che racchiudeva.

Sono figlia di un bibliotecario, e ho lavorato anch’io per tanti anni nella stessa biblioteca da cui, da piccola, prendevo in prestito i libri. So che è costoso, anche impegnativo, conservare le copertine dei volumi che saranno letti ripetutamente da una serie di persone. Si rovinano facilmente, e anche se ci sono metodi per proteggerle, per esempio in un involucro di plastica, è sempre più facile toglierle. Le copertine rigide e durevoli sono fatte apposta per vivere in biblioteca, mentre un’edizione tascabile, in brossura, è molto più transitoria.

Ho letto centinaia di libri, quasi tutta la letteratura della mia formazione, senza alcun riassunto sul risvolto, senza alcuna foto dell’autore. Avevano una qualità anonima, segreta. Non annunciavano nulla in anticipo. Per capirli, bisognava leggerli.

Gli autori che mi appassionavano all’epoca erano incarnati solo dalle loro parole. La copertina nuda non interferisce. La mia prima lettura si svolgeva fuori dal tempo, ignorante del mercato, dell’attualità. La parte di me che si sente sospettosa davanti alle copertine cerca di ritrovare quell’esperienza.

Oggi comprando un libro acquisto una serie di altre cose: la foto dell’autore, l’informazione biografica, le recensioni. Tutto questo complica la situazione. Crea confusione. Mi distrae. Mi è odioso leggere i commenti sulla copertina, per colpa dei quali abbiamo una delle parole più ripugnanti che esistano nella lingua inglese: blurb. Personalmente trovo che mettere i pareri di altre persone sulla copertina sia deplorevole. Voglio che le prime parole che il lettore incontra in un mio libro siano scritte da me.

Il rapporto tra lettore e libro si instaura ormai in modo molto più mediato, con una dozzina di persone che ronzano attorno. Non siamo mai da soli, io come lettrice e il testo. Mi manca il silenzio, il mistero del libro nudo: solitario, senza sostegno. Permette una lettura libera, priva di previsioni, riferimenti. Anche un libro nudo, secondo me, sta in piedi.

Purtroppo così non si può venderlo. Quasi nessuno vuole comprare qualcosa di misterioso, neanche un libro, senza indicazioni. Per certi versi il lettore di oggi assomiglia alla turista che, grazie alla guida turistica – ossia, grazie all’impatto della copertina – inizia a informarsi e orientarsi prima di sbarcare in un luogo sconosciuto. Prima di scoprirlo, di esserci. Prima di leggere.

Le bozze rilegate dei miei primi libri pubblicati in America assomigliavano un po’ ai libri nudi. Nessun’immagine, solo le informazioni essenziali. Restavano qualcosa di generico, non individuato. Quando in passato andavo in giro per promuovere un mio libro leggevo apposta dalle bozze stampate. Se ero costretta a usare il volume vero e proprio, toglievo sempre la giacca. Come ho già detto, il libro vestito non appartiene più a me.

Sedici anni fa, in America, quando la mia prima raccolta di racconti stava per uscire, i critici e i librai ricevettero le bozze stampate senza alcuna immagine. Perché? Forse perché anche l’editoria, all’epoca, voleva presentare il libro in anteprima in uno stato puro, senza distrazione, senza rumore, cioè senza copertina. Questo mi pare giusto.

Purtroppo, ormai anche le bozze stampate contengono delle informazioni secondo me superflue. Quelle del mio ultimo romanzo indicano la tiratura, i miei riconoscimenti precedenti, i titoli di altri miei libri. Per quanto l’aspetto sia “essenziale” mi sembra in qualche modo truccato. Pensavo che la copertina definitiva non ci fosse, ma sfogliando le bozze recentemente, l’ho scoperta riprodotta, proprio in prima pagina, seguita dal testo del risvolto. Tutto lì, solo leggermente nascosto. Non c’è scampo. Un mio libro nudo non esiste più.

5. L’uniformità e l’anarchia

Ora che vivo in Italia conosco un’altra sorta di copertina: quella che appartiene a una collana. Venendo dagli Stati Uniti queste copertine mi fanno sempre molto effetto. Trovo che siano di una semplicità e serietà ammirevoli. Le collane mi seducono, così come le divise dei miei cugini.

Le copertine di collana sono sobrie, generiche e al contempo immediatamente riconoscibili. Ormai se mi trovo in una libreria italiana, o a casa di amici, riconosco subito i libri bianchi degli Struzzi Einaudi, i colori gradevoli delle collane Adelphi, il blu scuro di quelle di Sellerio.

In questo momento sto leggendo due libri al contempo, entrambi pubblicati da Adelphi: La pelle di Curzio Malaparte e Linconveniente di essere nati di Emil Cioran. Sono due scrittori diversissimi ma nella veste adelphiana i loro libri si assomigliano, come se fossero membri della stessa famiglia, nati con lo stesso sangue. Hanno le stesse dimensioni, ma più che altro sono il frutto di una stessa sensibilità estetica. Entrambe mostrano un’immagine in un riquadro, poi il titolo e il nome dell’autore. Sono stampate su una carta liscia, incollate al libro solo sul dorso. Mi piace il fatto che il resto della sovraccoperta si stacchi dal blocco delle pagine, e che dietro la carta leggera, come se fosse una tenda, si trovi una plancia un po’ più rigida, bianca. Ecco, il libro nudo.

Una collana è un sistema grazie al quale è possibile organizzare una massa di libri. Una libreria sistemata così è estremamente armoniosa. Il marito di una mia amica italiana sistema tutti i suoi libri a collane, in un ordine cromatico. L’effetto è stupendo. Ma secondo sua moglie, a parte il vantaggio estetico, non funziona come sistema. Mi dice che è bello da guardare ma alla fine non si trova mai nulla.

Sulla mia scrivania tengo una fila di qualche titolo della Piccola Biblioteca Adelphi. Rispetto al grande disordine della mia scrivania sono una presenza elegante, un’isoletta rassicurante. Ne ho sette. Ciascuno è numerato sul dorso. Quando li guardo mi viene la voglia di possedere l’intera collana, cominciando dal numero uno, benché ce ne siano più di seicento.

Gli autori pubblicati in una collana appartengono l’uno all’altro, e tutti quanti appartengono alla casa editrice. Tutti i libri rappresentano la scelta, il gusto dell’editore, ma la collana conferisce al libro un’identità, una sorta di cittadinanza. Conferisce all’autore un radicamento enfatico. Una collana dice ai propri autori: siete nostri.

Si pone così una questione interessante, e molto dibattuta. È più importante la collana o il libro al suo interno? Io non ho ancora deciso. La collana serve al testo, ma anche viceversa. Da un lato la collana mi sembra un involucro discreto, meno invasivo rispetto a una copertina totalmente originale. Dall’altro, l’effetto della collana è un po’ formale, perfino pomposo.

Ogni collana mi pare un mondo esclusivo, una sorta di circolo. Mi chiedo, come si fa ad entrarvi? Eppure, almeno in Italia, le collane accolgono anche autori contemporanei. La Piccola Biblioteca Adelphi pubblica sia Friedrich Nietzsche che Yasmina Reza, sia Benedetto Croce che Jamaica Kincaid. Nel contesto europeo una collana non è qualcosa di polveroso, anzi, trovo che sia una comunità attuale, internazionale, eclettica, viva.

D’altro canto è classica, fidata, immutabile. Il suo valore è la continuità, con lievi modifiche. Resiste rigorosamente alla moda, alla confusione, all’instabilità. Esiste, un po’ come un libro nudo, fuori dal tempo.

*

Scrivo queste parole in una biblioteca di Roma, in un magnifico palazzo italiano che nonostante sia italiano contiene, in maggioranza, libri americani. Averlo scoperto mi pare un segno del destino. È qui che io, una scrittrice anglofona, ho sognato e scritto il mio primo libro in italiano.

Sono circondata, qui dentro, dal mio passato. Penso alla lunga vita di bibliotecario di mio padre, alla biblioteca dove andavo da piccola, a tutte quelle che ho amato e frequentato in America.

Eppure penso e scrivo, qui, in italiano. È qui che la mia scrittura ha cambiato strada.

Mentre scrivo in italiano guardo di tanto in tanto i libri che mi fanno compagnia. Vedo i loro dorsi in fila. Sono sistemati secondo una classificazione precisa. Mancano però di un ordine visivo. Vedo un miscuglio di libri senza giacca, con copertine rigide senza immagini, oppure con una giacca protetta da plastica.

Ci sono libri di ogni età, di ogni genere, pubblicati negli ultimi anni o più di un secolo fa. Si vede un amalgama di stili, di pensieri diversi. Si vede poca uniformità. C’è confusione ma anche una sorta di allegria. Mi pare una festa composta di singoli individui che si trovano comunque bene assieme.

Mi accorgo di un ambiente inclusivo. Suggerisce che qualunque libro può entrare, può abitare sugli scaffali. Tutti appartengono alla massa, e allo stesso tempo nessuno appartiene ad alcunché. Inutile dire che le copertine americane riflettono la realtà del Paese stesso, poco omogeneo, pieno di diversità.

Se mi alzo per sgranchirmi un attimo, vedo qua e là una collana americana, una serie di biografie, o un libro composto da vari volumi. Solo che in quel contesto libri del genere, libri che portano una divisa, sono l’eccezione anziché la regola.

I volumi delle collane americane – la stimata Modern Library, la Library of America – esprimono il valore di un classico. Una collana è un omaggio a un autore encomiabile, ormai intoccabile. L’uniformità, in questo caso, è segno di appartenenza al canone letterario, un abito immutabile per parole che dureranno.

Un vestito del genere è un riconoscimento forte, una sorta di premio, quasi sempre postumo. Nove volte su dieci l’autore è defunto. Un libro contemporaneo, uno scrittore giovane, non lo meriterebbero. A differenza della collana europea, dove si mescolano autori viventi e non, quella americana mi sembra quasi un mausoleo.

6. Le mie copertine

Un mio libro racconta una storia, ma che cosa racconta, nel frattempo, una mia copertina?

A ben guardare, le mie copertine tendono a rispecchiare perfettamente la mia identità duplice, biforcata, contestata. Di conseguenza sono spesso proiezioni, congetture.

Per tutta la vita sono stata in conflitto tra due identità diverse, entrambe imposte. Per quanto provi a liberarmi da questo conflitto, mi trovo, da scrittrice, presa nella stessa trappola.

Per alcune case editrici bastano il mio nome e la mia foto per commissionare subito una copertina pullulante di tutta una serie di richiami stereotipati all’India: elefanti, fiori esotici, mani dipinte di henna, il Gange, simboli religiosi o spirituali. A nessuno importa che gran parte delle mie storie siano, nei fatti, ambientate negli Stati Uniti, quindi abbastanza lontano dal fiume Gange.

Una volta, poiché protestavo che la copertina di un mio libro il cui protagonista è nato e cresciuto negli Stati Uniti mi sembrava troppo “esotica”, che ci tenevo a un riferimento meno “orientale”, hanno levato la foto di un suggestivo palazzo indiano e messo invece, al posto suo, la bandiera americana. Da uno stereotipo, insomma, all’altro.

Per me quindi una copertina sbagliata non è semplicemente una questione estetica, perché rimette in gioco tutta l’ansia provata fin da bambina. Chi sono? Come sono vista, vestita, percepita, letta? Scrivo per evitare la domanda, ma anche per cercare la risposta.

Ho la fortuna di essere tradotta in varie lingue straniere. Essendo ormai l’autrice di cinque libri, direi che in giro dovrebbero esserci all’incirca cento copertine in totale. Cento interpretazioni diverse.

Vedendo in fila tutte le copertine di uno stesso mio libro, diventa ovvio notare come cambiano il tono, l’anima, l’identità. Ne vedo una vivace, una cupa, una chiara. Vedo uccelli di vari tipi. Vedo un disegno intricato, un altro minimalista. Vedo solo il titolo e il mio nome e nient’altro. Vedo riferimenti espliciti alla dimensione politica del libro — fucili, falce e martello. Vedo una serie di paesaggi che evocano Calcutta, e vedo un mazzo di fiori su un tavolo. Vedo una fotografia di due ragazzi che si tuffano nell’acqua.

Da un lato è bello vederle insieme, cogliere l’abbondanza di stili, la varietà. Dall’altro mi chiedo: com’è possibile che un libro solo, lo stesso libro, possa generare questo panorama di immagini? Tutte queste copertine sono state ispirate dalla stessa storia scritta da me. Traduzioni a parte, ogni frase resta invariata. Eppure mi sembrano dodici libri distinti, con temi divergenti, scritti da dodici autori diversi.

Questo accade anche perché le copertine straniere riflettono l’identità, il gusto collettivo di ogni Paese. È rarissimo che da nazione a nazione un mio editore apprezzi la copertina di un altro. Dicono, magari con garbo, “che interessante, poi aggiungono che non funzionerebbe mai nel loro territorio, per i loro lettori. Una copertina a cui qualcuno tiene molto è priva di significato per un altro. Cosa significa questo tipo di giudizio? Temo che significhi l’incapacità, perfino in questo mondo globalizzato, di riconoscersi nell’altro.

Così come la lingua del testo, la copertina può costituire una barriera. Mentre scrivevo questo intervento mi sono trovata in una libreria in Olanda. Tutti i volumi attorno a me erano in olandese, lingua di cui non capisco nemmeno una parola. Non aveva senso aprire la copertina, dare un’occhiata alla prima pagina. Guardavo i libri, assorbivo soltanto il loro effetto visivo. Restavano oggetti, come se la libreria fosse un museo in cui non si poteva comprare niente. Trovavo queste copertine accattivanti, ma soprattutto le trovavo straniere. Mi accorgevo subito, nella libreria di Amsterdam, di essere altrove. Le copertine di ogni Paese costituiscono una geografia distinta, un paesaggio inconfondibile.

A tutti piace giudicare le copertine dei libri. Per prima cosa è molto più facile che valutarne il contenuto. E poi è divertente. Basta guardarle e registrare la propria reazione. Vorrei condividere con voi alcuni commenti che ho ricevuto quando ho mostrato ai miei amici in Italia le diverse prove di copertina per La Moglie, il mio ultimo romanzo: Sembra una scatola di biscotti. Sembra un libro di avventure per ragazzi. Sembra un tappetino persiano. Sembra un thriller politico. Sembra un libro scritto dal Papa. 

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Da pochi mesi ho un nuovo libro, quello scritto in italiano, In altre parole. Il suo arrivo introduce un elemento inaspettato per quanto riguarda la mia identità letteraria. Non sono italiana, eppure è scritto in italiano. Parla della lingua italiana, e del mio rapporto con essa. Non ha molto in comune con i precedenti. È un libro speculativo, autobiografico, quasi privo di ambientazione.

La prima copertina, quella italiana, mi piace. Mostra una donna vista di spalle, di fronte a una sorta di muro. Eppure l’immagine è leggera, aperta, ambigua. Comunica secondo me il senso di questo progetto letterario, anche se non ho mai parlato con l’illustratore. Non me l’aspettavo, è stata una sorpresa, ma la ritengo tuttavia la copertina giusta per questo libro. In questo caso, un’avventura a lieto fine.

In altre parole sarà tradotto in diverse lingue, per cui in questo periodo devo vagliare una copertina dopo l’altra. Quella dell’edizione americana e inglese avrà una foto di me in una biblioteca di Roma. L’edizione olandese, già pubblicata, mostra un’altra mia foto, ingrandita e piuttosto sfocata. Secondo loro, esprime la natura personale e introspettiva del libro.

La mia prima reazione alla proposta di una mia foto sulla copertina è stata negativa. Temevo che sarebbe stato giudicato come un atto di vanità, una strategia sfacciata per vendere un libro di nicchia. Poi mi sono ricreduta.

Entrambe le foto sono state fatte da un mio caro amico di Roma che mi conosce, che mi legge, di cui mi fido. Abbiamo scelto insieme entrambi i ritratti. Prima di fare le foto nella biblioteca ne avevamo discusso. Gli avevo spiegato ciò che volevo e lui mi aveva ascoltato. Così per la prima volta sono riuscita a partecipare al processo di realizzazione di una mia copertina. Alla fine l’autore è il libro: lo rappresenta in maniera diretta, anche sincera. Meglio una mia foto che un’immagine seccante, irrilevante. Forse ha senso che, in America, in Inghilterra, in Olanda, io sia diventata la mia copertina.

Anche quando la veste grafica di un mio libro non mi piace particolarmente, finisco con il trovare qualche affinità. Col tempo le copertine diventano una parte di me, e io mi identifico con esse. Recentemente in Italia mi è successa una cosa particolare: mi è arrivato un libro in omaggio da un editore italiano, e questo volume, l’edizione italiana di un romanzo scritto in inglese da un altro autore di origine indiana, ha la stessa copertina dell’edizione americana della mia prima raccolta di racconti. Ogni dettaglio è identico.

Sono rimasta stupita quando, aperto il pacco, l’ho visto. Pensavo all’inizio che fosse il mio libro, poi mi sono accorta che aveva più pagine, e che il titolo e il nome dell’autore erano diversi. Ho chiamato subito la mia agente. “Ma questa è la mia copertina!” le ho detto. Sembra che possa succedere. Comunque è troppo tardi, quest’altro libro, il gemello molto più grosso del mio, è già uscito. L’altro giorno all’aeroporto di Roma ne ho vista una pila davanti alla quale mi sono fermata, pensando per un istante che fosse il mio in inglese.

Credevo, anni fa, che quella copertina fosse stata fatta su misura. Credevo che sarebbe appartenuta solo al mio libro, e che, in qualche modo, sarebbe rimasta fedele a me. Invece la stessa copertina ha vestito le mie parole e poi mi ha abbandonata per andare da un altro autore, in un altro Paese, senza mai lasciarmi del tutto.

7. La copertina viva, la copertina morta, la copertina perfetta

Oggi il libro stampato su carta non è più l’unica manifestazione di un testo pubblicato. Cosa significa una copertina quando il volume fisico non c’è più? Non leggo ebook, ma credo che sullo schermo una copertina non abbia la stessa funzione, la stessa presenza. Stranamente, lo schermo privilegia il testo, e la veste grafica non è più un vestito o una protezione. Resta un dettaglio, un accessorio, un elemento ancillare, direi gratuito. Diventa ancora di più un’etichetta. Una copertina di carta col tempo si sporca, si rovina. Sullo schermo non capita nulla di simile.

Un pittore che conosco e ammiro in America, Richard Baker, si dedica da anni a dipingere una serie di quadri che raffigurano copertine classiche. Di solito sceglie come modello libri tascabili, cioè, l’edizione più modesta e più economica. Molti sono libri che gli hanno cambiato la vita. I quadri sembrano fotografie di guazzo, iper-realistici. Dipinge le copertine fedelmente, con affetto ma con uno sguardo spietato. Copia cioè in modo ingegnoso i disegni di altri grafici.

Tutti sono libri vissuti, tenuti giorno dopo giorno in mano. Le copertine sono sbrindellate, ingiallite, scolorite dal sole. Come se fossero visi di persone, sono solcate, provate. Sono, fino in fondo, vive.

Ogni quadro di Baker è il ritratto di un libro, ma ci racconta molto di più. Racconta la passione di leggere, sia la sua sia quella collettiva. Racconta la formazione letteraria di una generazione intera. Preserva sulla tela un mondo, una cultura ormai in declino, che sta tramontando. Suscita nostalgia, richiama un’epoca che non esiste più. Ma soprattutto rivela la relazione, il forte legame d’affetto, quasi una fusione tra lettore e libro. Baker ha detto che i libri:

“Hanno finito col rappresentare vari episodi delle nostre vite, certi idealismi, assurdità del pensiero, momenti d’amore. Lungo la strada raccolgono le nostre impronte, i nostri segni, le nostre macchie, i nostri maltrattamenti innocenti — sono arrivati a indossare l’esperienza che abbiamo fatto di loro sulle copertine e sulle rilegature come le rughe sulla nostra pelle”.

Nell’immortalare le copertine della sua vita, Baker dimostra come esse invecchino e, alla fine, muoiano, come noi. Esprimono qualcosa di sfuggente, mai definitivo, mai permanente.

Qual è la copertina perfetta? Non esiste. La gran parte delle copertine, come i nostri vestiti, non durano per sempre. Hanno senso, piacciono solo in un arco temporale specifico, dopodiché sono datate. Col tempo bisogna ridisegnarle, cambiarle, così come una vecchia traduzione. Si mette una nuova copertina per rinvigorire un libro, per renderlo più attuale. L’unica cosa che non viene rinnovata, che resta intatta, è il testo originale, nella lingua in cui è stato scritto.

Come Richard Baker, resto fedele alle copertine dei libri che mi hanno cambiato la vita. Se vedo un’altra edizione di Ritratto dellartista da giovane di Joyce o delle Opere complete di Shakespeare rispetto a quelle che ho letto all’università, non mi sembra lo stesso libro. Temo che quell’edizione sconosciuta, che non ho tenuto in mano, che non veniva con me in biblioteca, che non ho sottolineato, studiato, di cui non mi sono innamorata, non susciterebbe la stessa emozione in me.

Resto attaccata perfino a certe copertine brutte, scolastiche, che leggevo e poi restituivo al liceo, sebbene non le abbia mai possedute. Non c’entra alla fine la bellezza della copertina. Come ogni vero amore, quello del lettore resta cieco.

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Se fosse possibile scegliere una mia copertina, come la sceglierei? Una divisa che appartiene a una collana? O qualcosa di originale, realizzato apposta per un mio libro?

Da un lato cerco disperatamente di appartenere, di avere un’identità precisa. Dall’altro mi rifiuto di appartenere, e ritengo che la mia identità confusa e ibrida mi arricchisca. Resterò probabilmente per sempre in conflitto tra queste due strade, questi due impulsi.

Certamente preferirei l’uniforme eleganza di una collana a una copertina insulsa, a una copertina che mi angoscia. Eppure so che esprimersi vuol dire per forza essere diversi. La voce di chi scrive resta una voce singolare, solitaria. L’arte non è altro che la libertà di esprimersi in qualsiasi lingua, in qualunque maniera, vestiti in qualunque modo.

Se potessi vestire un mio libro da sola, mi farebbe piacere mettere in copertina una natura morta di Morandi, oppure un collage di Matisse. Non avrebbe alcun senso dal punto di vista commerciale, e probabilmente non significherebbe nulla per il lettore. Io però mi ritrovo nello sguardo astratto, nel registro cromatico, nel linguaggio di questi due pittori. Avrebbe senso per me.

Ho scritto quest’ultima frase una sera. Il mattino dopo aver espresso questo mio desiderio, mi è successa una cosa meravigliosa. Proprio di fronte al cancello del palazzo in cui abito si trova una fermata dell’autobus, con due cartelli a poca distanza uno dall’altro.

Per una bella coincidenza, mentre scrivevo questo testo, Roma ospitava due mostre in contemporanea, di Morandi e di Matisse. Appena uscita di casa quel mattino, alzando lo sguardo, ho visto sul cartello di destra una natura morta di Morandi, e su quello di sinistra un’opera di Matisse. Stavo in mezzo e per qualche momento, immaginandomi trasformata nelle pagine di un mio libro, sono stata vestita da entrambi.