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IL LETTORE, LO SCRITTORE E IL TRADUTTORE

Michael Cunningham

17 Giugno 2010

Dopo quasi trent’anni passatti a scrivere narrativa, sono arrivato a capire che la traduzione non è semplicemente un lavoro assegnato a un traduttore, ma una lunga, complessa e anche profonda serie di trasformazioni che coinvolgono anche scrittore e lettore. La “traduzione”, essendo un atto umano, è, come tanti altri atti umani, un affare molto più complicato di quanto inizialmente possa apparire.

Cominciamo, comunque, da quello che dovrebbe essere l’inizio. Parliamo del lavoro che effettivamente i traduttori svolgono.

Dopo avere passato del tempo nel corso di questi anni con un buon numero di traduttori, ho imparato un po’ di cose sulle loro esistenze e sul loro lavoro. Ho imparato che sono a tal punto sottovalutati e sottopagati che al loro confronto i poeti sembrano stelle del cinema. E ho imparato che sono degli artisti.

Nessuno di voi si sorprenderà nel sapere che i bravi traduttori non si limitano semplicemente a trasporre un libro da una lingua in un’altra. I bravi traduttori si tormentano sul problema della fedeltà al testo originale. Fino a che punto il traduttore deve riprodurre, il più esattamente possibile, il materiale originale, anche se le frasi che sono potenti e vigorose e musicali in una lingua suonano spesso sorde e goffe in un’altra? E ancora, fino a che punto il traduttore deve sentirsi libero di cercare di replicare la summenzionata potenza e il summenzionato vigore e la stessa musica riscrivendo, per adattarsi ai significati e ai suoni più congeniali nella lingua del traduttore, anche se la frase tradotta si discosta, a volte piuttosto drasticamente, dall’originale? Fino a che punto il traduttore può presumere di capire le intenzioni dell’autore e ri-immaginarle in italiano, finlandese, o mandarino?

Lasciate che vi esponga un esempio dei dilemmi del traduttore.

Prendiamo quella che è probabilmente la frase più famosa della letteratura americana: “Call me Ishmael.” E’, come probabilmente sapete, la frase di apertura del Moby Dick di Herman Melville. In America, anche chi non ha una profonda cultura riconosce questa frase.

Dunque. “Call me Ishmael.” Tre semplici parole. Che c’è di difficile?

Tanto per cominciare, esse possiedono la più fondamentale e più evanescente delle qualità della scrittura: l’autorità. In quanto scrittori, noi dobbiamo, fin dalla prima frase, parlare con autorità ai nostri lettori.

E’ un po’ come ballare il valzer con un nuovo partner per la prima volta. Chiunque di voi sappia ballare il valzer, o il fox trot o il tango, o praticare qualsiasi tipo di danza che richieda un contatto fisico con un partner, sa che c’è un primo momento, sulla pista da ballo, in cui si stabilisce, automaticamente, se il nuovo partner sappia o meno ballare, e se sa farlo, quanto bene lo sappia fare. Vi accorgete quasi

istantaneamente se avete per le mani un novizio o una novizia, e se è così, sapete subito che dovrete faticare un bel po’ per far marciare le cose. Se, invece, è subito evidente che siete incappati in qualcuno che sia bravo almeno quanto voi, potete rilassarvi e divertirvi. Sapete già che vi aspetta una vera danza, invece che un’esercitazione, un allenamento ginnico, o un esperimento prolungato di pazienza e benevolenza.

Con un incipit pieno di autorità noi, come scrittori, assicuriamo i nostri lettori che sappiamo danzare, che in effetti danziamo abbastanza bene, e quindi i nostri lettori possono rilassarsi e lasciarsi guidare. Capiscono, immediatamente, di essere nelle mani di qualcuno che sa cosa sta facendo.

L’“Autorità” è una qualità piuttosto misteriosa, ed è quasi impossibile analizzarla per scoprirne i componenti. Il primo compito del traduttore, quindi, è quello di ripristinare una certa energia che non può praticamente essere descritta o spiegata. Il traduttore è chiamato dunque a eseguire un magia.

Ma, sebbene le parole “Call me Ishmael” abbiano forza e sicurezza, forza e sicurezza da sole non bastano. Idiota, leggi questo, ha ugualmente forza e sicurezza, ma è meno probabile che queste parole raggiungano l’effetto desiderato. Cos’altro possiedono le parole di Melville che la frase Idiota, leggi questo non possiede?

Possiedono musicalità. Ed ecco il punto in cui il lavoro del traduttore diventa ancora più difficile.

La lingua della narrativa è composta in parti uguali di significato e musica. Le frasi dovrebbero avere ritmo e cadenza, dovrebbero coinvolgere e deliziare l’orecchio interiore. Idealmente, una frase letta ad alta voce, in una lingua sconosciuta, dovrebbe possedere comunque una qualità sonora, anche se chi la ascolta non ha idea del significato di ciò che gli viene raccontato .

Proviamo a dimenticare che le parole “Call me Ishmael” abbiano un significato, e soffermiamoci su come suonano.

Ascoltate I suoni vocalici: ah, ii, una i più morbida, aa. Quattro suoni, differenti uno dall’altro, ciascuno una nota morbida, rassicurante. Ascoltate anche come la frase sia tenuta insieme dalle consonanti. Apriamo con la c dura, battiamo sulla l alla fine di call, e poi, in un atto di deliziosa simmetria, battiamo sulla seconda l alla fine di Ishmael. Call me Arthur o Call me Bob andrebbero bene, ma per ragioni musicali non ci procurano la stessa soddisfazione.

Spero che non sembri che io stia spaccando il capello in quattro. La maggior parte dei lettori, ovviamente, non saprà che reagisce a quelle tre parole perché sono rassicuranti e simmetriche, ma registra la cosa a livello inconscio. Si potrebbe dire probabilmente che il significato è la forza che mettiamo in campo, e la musica è invece la seduzione.

Il lavoro del traduttore consiste nel riprodurre tanto la forza quanto la musica.

Chiamami Ismaele.

Questa è naturalmente la versiona Italiana della frase di Melville, e il traduttore ha fatto un buon lavoro. Posso dirvi, da lettore che non comprende l’italiano, che quelle parole hanno un loro particolare suono, indipendente dal significato. Sebbene diversa dal’inglese, abbiamo una nuova progressione, ugualmente piacevole, di suoni vocalici – ia, a, i, ae – e quelle tre m, ben distanziate.

Bene quindi. Se state traducendo Moby Dick, vi siete lasciati alle spalle una frase, e ve ne rimangono circa un milione. Io incoraggio I miei traduttori a prendersi tutte le licenze di cui sentano il bisogno. Preferirei che le mie frasi brillassero in una forma alterata piuttosto che vederle giacere lì come blocchi di cemento nelle loro versioni letterali. Io scelgo di fidarmi dei miei traduttori.

Questo non è in effetti il gesto eroico che potrebbe sembrare, poichè ho imparato, dal lavoro con i traduttori nel corso degli anni, che il romanzo originale è, in un certo senso, esso stesso una traduzione. Naturalmente non è una traduzione in un’altra lingua, ma è una traduzione dalle immagini che l’autore ha in testa a ciò che è effettivamente capace di mettere giù su carta.

Eccovi un segreto. Molti romanzieri, se vengono incalzati e se sono onesti, devono ammettere che il libro finito è una traduzione piuttosto rozza del libro che volevano scrivere. E’ una delle qualità strazianti dello scrivere narrativa. Per mesi o anni ve ne siete andati in giro con l’idea di un romanzo nella vostra testa, e nella vostra testa è straordinario, brillantemente comico, disperatamente tragico, racchiude tutto quello che sapete e tutto quello che potete immaginare sulla vita umana sul pianeta terra. E’ grandioso e misterioso e solenne. E’ una cattedrale di fuoco.

Anche se il libro in questione viene fuori abbastanza bene, non è mai il libro che avevate sperato di scrivere. E’ più piccolo del libro che avevate sperato di scrivere. E’ un oggetto, una raccolta di frasi, e non assomiglia neanche lontanamente a una cattedrale di fuoco. Non contiene né tutto quello che sapete, né tutto quello che immaginate. Potete anche avere pensato, in momenti di grandezza particolarmente delirante, che avreste potuto rendere conto di tutta l’esperienza umana, e non potete fare a meno di notare che il risultato finale non contiene niente che riguardi la guerra in Crimea, il Grande Spostamento Vocalico, o la navigazione interstellare. E’ solo questo. Questo libro. E contiene solo ciò che contiene.

Sembra, in breve, una traduzione piuttosto insulsa di una mitica grande opera.

Il traduttore, quindi, sta solo spostando il libro di un altro passo nel continuum delle traduzioni. Il traduttore sta traducendo una traduzione.

Sono capace, e solo a malapena, di sopravvivere alle fitte di delusione che mi assalgono quando finisco un romanzo solo perché non ho, e non ho mai avuto, una concezione dei miei libri come testi sacri. Un romanzo, qualsiasi romanzo, se vale qualcosa, è non solo una traduzione leggermente deludente delle più grandiose intenzioni del romanziere, ma è anche né più né meno di un diario dell’esperienza che il romanziere ha affrontato mentre imparava, scrivendo, come si scrive un romanzo. I romanzieri dovrebbero essere eccessivamente ambiziosi. Dovrebbero sempre sentire che stanno facendo qualcosa di troppo grande per loro, come se non sapessero esattamente cosa stiano affrontando. E’ così che il romanzo si guadagna la sua vita. Un romanzo scritto da qualcuno che si auto-proclama ‘esperto’, – un romanzo che non è stato percepito, nel corso della scrittura, almeno saltuariamente, come un un fallimento – può essere ben fatto, e può anche essere un ‘buon’ romanzo, ma probabilmente non sarà profondo. E’ probabile che somigli a un carillon svizzero, nel quale una piccola ballerina salta fuori e danza Per Elisa, piuttosto che alla furiosa, scomposta, misteriosa creatura che un romanzo dovrebbe essere.

L’esempio migliore che io conosca di questo stato necessario di semi-competenza non viene dalla letteratura ma dalla pittura. Monet, che ha creato quegli spettacolari dipinti di stagni pieni di ninfee quando era già molto in là con gli anni, stava cercando – senza riuscirci – di dipingere il movimento delle canne sotto la superficie dell’acqua quando morì. Spirò cercando di far sì che quelle canne dipinte ondeggiassero correttamente. Morì, di fatto, mentre ancora cercava di imparare a dipingere, mentre ancora si affaticava per un effetto che gli sfuggiva. Ed è questo, a mio parere, che avviene per un artista di qualsiasi tipo.

Se, come scrittori, considerate di essere e rimanere per tutta la vita uno student che impara a scrivere, è praticamente impossibile pensare a qualunque libro abbiate scritto come definitivo. Un romanzo, qualsiasi romanzo, può solo essere il migliore romanzo che siete stati capaci di scrivere in quel momento della vostra vita, e anche se è venuto abbastanza bene, lo avreste scritto diversamente cinque anni più tardi. Io, personalmente penso che scriverei diversamente la maggior parte dei miei libri solo sei mesi più tardi, e tutto quello che posso fare è trattanermi dal correre di libreria in libreria a cancellare certe frasi di cui mi sono già pentito.

Non sto cercando di sembrare stupidamente modesto. Nessun romanziere è modesto. Pensate a quello che un romanziere dice in definitiva al mondo tutto: smettete di fare quello che state facendo e leggete questo. Non mangiate, non fate sesso, non chiamate un amico, e , per amor del cielo, non leggete nient’altro. Leggete questo, invece. Un romanziere – qualunque romanziere che io ammiri – si muove in un equilibrio spericolato fra la tracotanza e la negazione di sé. Devi avere abbastanza fiducia in te stesso da scrivere quello che stai scrivendo, e da credere che valga la carta su cui è stampato. E nello stesso tempo devi sottometterti alle tue storie, ai tuoi personaggi, alla tua arte. Sono sicuro che noi tutti abbiamo letto libri il cui primo fine è quello di mostrare l’abilità dello scrittore; di asserire una volta e per tutte che lo scrittore in questione è più brillante e pieno di talento di quanto osassimo immaginare. Non so come la pensiate, ma trovo questo genere di esperienza di lettura piuttosto vuota.

Questo ci porta alla questione del rapporto fra gli scrittori e i loro lettori, ed è lì che avviene una nuova traduzione.

Io insegno scrittura, e una delle prime domande che pongo ai miei studenti ogni semestre è: per chi state scrivendo? La risposta, nove volte su dieci, è che scrivono per se stessi. Io dico loro che capisco: vado a casa ogni notte, preparo una torta elaborata, e poi la mangio tutta da solo. Con questa frase intendo dire che le torte, e i libri, sono fatti per essere offerti agli altri. E inoltre che i libri (a differenza delle torte) sono interazioni profonde, elaborate, eroticizzate fra scrittori e lettori, sebbene questi siano separati nel tempo e nello spazio.

I miei studenti tendono a rispondere accusandomi di chiedere loro di assecondare I lettori. Io rispondo a mia volta che se ogni relazione intensa e complessa richiedesse di assecondare l’altro, allora faremmo meglio ad andare a vivere da soli sulle cime delle montagne.

Nello stesso tempo ricordo loro che nessuno vuole leggere le storie che scrivono. Ci sono un mucchio di altre storie, lì fuori, e fino a ora, arrivati nel XXI secolo, c’è stato un tale accumulo di letteratura che pochi di noi vivranno abbastanza a lungo per leggere tutti i grandi racconti e i grandi romanzi che sono stati scritti, figuriamoci quelli che sono solo abbastanza buoni. Per non parlare del fatto che noi, come lettori, siamo impegnati. Abbiamo vite intense e difficili. Abbiamo, in misura variabile, lavori da svolgere, compagni e figli a cui badare, commissioni da sbrigare, amici da vedere; abbiamo bisogno di tenerci aggiornati su quello che succede; abbiamo scoiattoli nei nostri giardini e vicini alla porta che ci domandano perchè mai dovrebbero essere loro a rastrellare le foglie che i nostri alberi lasciano cadere nei loro giardini; dobbiamo capire se il gatto stavolta si è veramente perso, e dobbiamo in un modo o nell’altro preparare la cena; stiamo cercando di riparare da soli la lavatrice perché il tecnico sembra averla rotta ulteriormente; stiamo seguendo dei corsi di francese o di degustazione di vini o di invite all’arte; stiamo cercando prove che le persone che amiamo ci tradiscano; ci stiamo chiedendo perché diavolo abbiamo invitato quaranta persona a casa sabato sera; stiamo cercando di convincere i nostri figli a non indossare a scuola un abbigliamento disastrosamente inappropriato e a dedicarsi a fare i compiti; siamo preocupati per il denaro e per il riscaldamento globale; stiamo registrando cinque o sei delle nostre serie televisive preferite.

Ciò che lo scrittore dice esenzialmente é: fai spazio tra tutto il resto per questo. Smetti di fare ciò che stai facendo e leggi questo. Sarà bene che fin dalla prima riga sia chiaro che stiamo offrendo ai lettori qualcosa che valga la pena.

Devo ammettere che, quando ero giovane come i miei studenti sono adesso, anche io pensavo di scrivere solo per me stesso, per qualche fantasmatico lettore ideale, o nei momenti più pomposi, per le generazioni future. Non trovavo che nessuno di questi ipotetici lettori, in uno spettro che andava da me stesso alle persone ancora non nate, fosse abbastanza specifico, e come risultato la mia opera ne soffriva. Scoprii un metodo migliore anni fa, quando lavoravo in un bar ristorante a Laguna Beach, in California. Una delle addette alla sala era una donna di nome Helen, che aveva una quarantina d’anni all’epoca e quindi mi sembrava, allora, di poco più giovane del Vecchio Marinaio di Coleridge. Helen era una donna amabile e generosa che aveva quattro figli e che era stata lasciata, di colpo e senza alcun preavviso, da suo marito. Di colpo, senza alcun preavviso, senza un un indirizzo a cui rivolgersi, e con un mucchio di debiti di gioco cui il marito aveva dimenticato di accennare. E quindi, oltre ad allevare I figli (e a fare del suo meglio per tenere il più grande lontano dalla galera) doveva lavorare. E lavorare, e lavorare ancora. Lavorava in un forno di mattina presto, batteva a machina manoscritti per scrittori nel pomeriggio, e di notte faceva accomodare i clienti al ristorante. Era un’avida lettrice, e la sua grande gioia, alla fine di una giornata lunga e dura, consisteva nell’infilarsi a letto e leggere per un’ora prima di prendersi quel breve intervallo di sonno che le veniva garantito. Leggeva di tutto e voracemente. Quando ci conoscemmo stava leggendo un romanzaccio giallo, e io, come solo chi è giovane e presuntuoso può fare, le avevo suggerito di provare a leggere Delitto e castigo di Dostoevskij, visto che le piacevano i gialli. Lo fece. Lesse Delitto e castigo in meno di una settimana. Quando lo ebbe finito, mi disse. “E’ meraviglioso.”

“Avevo pensato che potesse piacerti,” risposi.

Ribattè, “Dostoevskij è molto meglio di Ken Follett.”

“Già.”

Poi fece una pausa. “Ma non è bravo quanto Scott Turow.”

Sebbene io non sia necessariamente d’accordo con lei a proposito di Dostoevskij e Turow, mi piacque, e molto, il fatto che Helen non avesse nessun preconcetto di tipo scolastico su cosa dovesse piacerle di più, e cosa di meno. Aveva solo bisogno di ciò di cui ha bisogno ogni buon lettore: di venire trascinata, emozionata, di sentire un ritmo nella narrazione e la sensazione di essere strappata dal mondo in cui viveva e trasportata in un altro.

Ho cominciato a pensare di scrivere un libro che potesse interessare Helen. Un libro che potesse essere percepito come una compensazione adeguata per tutto quello che aveva sofferto. Un libro che l’avrebbe aspettata alla fine della giornata e le avrebbe dato qualcosa che per lei fosse importante.

E, devo dirvelo, la cosa ha cambiato la mia scrittura. Mi accorsi, abbastanza improvvisamente, che la scrittura non è solo un esercizio di auto-espressione, è anche, cosa più importante, un regalo che noi da scrittori stiamo cercando di offrire ai lettori. E considerato chi c’è là fuori e cosa deve affrontare, è meglio che sia un regalo degno di questo nome.

Scrivere un libro per Helen, o per qualcuno come Helen, è un’aspirazione gestibile. Sebbene scrivere narrativa costituisca, giustamente, una prospettiva spaventosa, la si può approcciare con un po’ più di entusiasmo se si pensa meno alla storia della letteratura e più al lettore.

Il lettore rappresenta il gradino finale nella continua vita di traduzioni di un libro.

Ho incontrato molti, molti più lettori dopo quel primo scambio di tanto tempo fa con Helen, e l’esperienza è stata decisamente varia. La buona notizia: alcune persone ti dicono che amano i tuoi libri e che ne sono toccati. La notizia meno buona: altri lettori dicono che non capiscono il senso dei tuoi libri, o li trovano troppo deprimenti, o semplicemente che non riescono a venirne coinvolti. Al primo gruppo di lettori si è grati. Del secondo gruppo si può solo pensare “Be’, allora evidentemente non sono riuscito a tradurre le tue speranze in una lingua che tu potessi leggere.”

Questa esperienza, naturalmente non è confinata solo ai propri libri. Da insegnante si ha sempre a che fare con studenti che trovano Cechov noioso, Gide sovreccitato, e Proust impenetrabile. Alcuni studenti sono dispiaciuti per le difficoltà che incontrano con i capolavori della letteratura. Altri studenti ne vanno abbastanza fieri.

Uno degli aspetti più straordinari dello scrivere e pubblicare sta nel fatto che non ci sono mai due lettori che leggano lo stesso libro. Noi tutti proviamo sensazioni diverse rispetto a un film, a una commedia teatrale, a un dipinto o a una canzone, ma abbiamo tutti indubbiamente visto o sentito lo stesso film, la stessa commedia, dipinto o canzone. Sono entità fisiche. Un dipinto di Velasquez è puramente e semplicemente se stesso, così come Blue di Joni Mitchell. Se entrate nella galleria giusta del Prado, o se qualcuno mette su un disco di Joni Mitchell, voi vedrete il dipinto o ascolterete la musica. Non avete scelta. La scrittura invece non esiste senza un lettore attivo e consenziente. La scrittura richiede un livello di partecipazione diverso. Le parole su carta sono astrazioni, e chiunque legga parole su carta, anche se sono le stesse parole lette da chiunque altro, porta a quelle parole un diverso sistema di associazioni e immagini. Io ho immagini mentali vivide di Don Chisciotte, Anna Karenina, e Huckleberry Finn, ma sono sicuro che non siano identiche alle immagini che ha nella testa chiunque altro in questa sala.

E’ qualcosa di più, naturalmente, del come immaginiamo un personaggio. E’ l’esperienza intera della lettura di un romanzo, l’esserne toccati o meno, spaventati o consolati, esaltati o depressi. Leggiamo in solitudine e nessuno di noi sta leggendo esattamente lo stesso libro. Anche la mia amata Helen, chiaramente, non stava leggendo lo stesso Delitto e castigo che avevo letto io. Non stava cercando un capolavoro esistenziale, cercava un buon giallo, e leggeva Dostoevskij con quel pensiero in testa. Non gliene faccio una colpa. E mi piace pensare che neanche Dostoevskij gliela farebbe.

Ciò che fa il lettore, allora, è tradurre le parole sulla pagina nel suo lessico private e immaginario, secondo i suoi bisogni, i suoi interessi, i suoi livelli di comprensione.

Immaginate questo, allora. A un certo punto abbiamo uno scrittore in una stanza che combatte per avvicinarsi alla impossibile visione che ha nella sua testa. La mette a punto, con molti dubbi. Si preoccupa di avere tradito il suo libro solo a causa della sua incapacità, ma capisce che prima o poi qualunque libro deve essere dichiarato finito, perché l’unica alternativa è continuare a lavorare allo stesso incompletabile romanzo tutta la vita.

Qualche tempo più tardi abbiamo un traduttore, in un’altra stanza, in un altro paese, che combatte per avvicinarsi alla visione, per non parlare dei particolari della lingua e della voce, del testo che ha di fronte a sé. Fa il meglio che può, ma non è mai soddisfatto. Sente che ha perso qualcosa, che ha lasciato qualcosa fuori o ha fatto troppo; che ha fallito e tradito il libro solo a causa della sua incapacità. Ma lo consegna, perché sa che la sola alternativa sarebbe quella di trascorrere la vita a tradurre e ritradurre lo stesso libro, senza mai arrivare a sentire che sia abbastanza buono.

E poi, alla fine, il lettore. Il lettore è il meno torturato di questo terzetto (grazie a dio, altrimenti nessuno comprerebbe mai libri), ma anche il lettore può sentire che sta perdendo qualcosa del libro, che non è pronto per la sfida che il libro gli pone, che solo a causa della sua incapacità non riesce a essere il mezzo proprio per la vision onnicomprensiva del libro. Può anche sentire – anche se non è consapevole di questo sentimento – che sta cercando un libro migliore, non solo migliore di quello che ha tra le mani, ma un libro migliore di quello che qualunque essere umano possa mai scrivere, un libro che racconti l’intera storia umana, che sia brillantemente comico e disperatamente tragico, e racconti la guerra in Crimea, Il Grande Scambio Vocalico e la navigazione interstellare.

Non voglio lasciare intendere che scrittore traduttore e lettore siano tutti impegnati in un deludente esercizio collettivo. Quanto sarebbe deprimente? E come sarebbe falso. La letteratura ci anima, ci illumina, ci accompagna dall’infanzia alla morte. I grandi libri ci lasciano sgomenti, come sanno fare solo i miracoli. Attestano il fatto che, contro ogni probabilità, contro tutti i limiti della carne, un individuo fra tanti, un individuo straordinario, è capace di prendere i più umili dei materiali, l’inchiostro e la carta, e produrre con essi un grande sogno che il lettore non solo riceve, ma a cui può partecipare. Da qualcosa di inanimato un grande scrittore crea un’opera che può stare in piedi senza imbarazzi davanti allo spettacolo della vita stessa.

Ma in ogni caso, noi cerchiamo sempre cattedrali di fuoco, e parte dell’eccitazione nel leggere una grande libro sta nella promessa di un nuovo libro che ancora non abbiamo incontrato, un libro che possa toccarci ancora più profondamente, che possa farci innalzare ancora più in alto. Una delle consolazioni dello scrivere libri sta nella convinzione apparentemente invincibile che il prossimo libro sarà migliore, sarà più grande e coraggioso, e più esaustivo e fedele alle vite che viviamo. Rimaniamo in uno stato di speranza continua, amiamo la bellezza e la verità che vengono a trovarci, e facciamo del nostro meglio per mettere a tacere dubbi e delusioni. E’ questa la nostra particolarità. Questa la nostra gloria. Siamo alla ricerca di qualcosa, e non veniamo scoraggiati dal sospetto collettivo che la perfezione che cerchiamo nell’arte abbia le stesse possibilità del santo Graal di venire trovata. Questa è una delle ragioni per cui noi, e intendo noi esseri umani, siamo non solo creatori, traduttori e consumatori di letteratura, ma della letteratura siamo anche i soggetti.

Traduzione di Ivan Cotroneo