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SCRIVERE LA FOLLIA

Patrick McGrath

12 Giugno 2013

È un grandissimo onore essere invitato da Beatrice von Rezzori a tenere la Lectio Magistralis di quest’anno qui a Firenze. Parecchi miei amici importanti sono stati in questo stesso posto e hanno parlato con orgoglio della loro presenza qui. Io sono venuto in Italia molte volte, da vent’anni a questa parte, quasi sempre in compagnia di mia moglie Maria, e siamo rimasti sopraffatti dal calore dell’ospitalità italiana. Ma questo è un viaggio particolare. Vengo innanzitutto come ospite della mia cara amica Beatrice, a tenere questo discorso in occasione di un grande premio, il Premio Gregor von Rezzori – Città di Castello. Dovrebbe bastare a chiunque! Ma in più io sono un innamorato dell’Italia e di tutto ciò che è italiano che non ha mai messo piede a Firenze! Com’è possibile una cosa del genere? Altre città ci hanno attratti e sedotti, Roma, Napoli, Mantova, Milano, Capri, e naturalmente la nostra amata Venezia. Firenze, a quanto pare, si è tenuta in disparte fino alla fine, fino a questo momento in cui siamo abbastanza vecchi per apprezzare come si deve la sua bellezza. Eccoci qui, dunque, nel palazzo Medici-Riccardi, in quella che dev’essere senza dubbio la più bella sala barocca d’Italia, affrescata dal grande Luca Giordano: ne sono molto lieto e onorato. Grazie.

Come tema della serata ho scelto scrivere la follia.

*

Uno psichiatra mi ha iniziato alle riflessioni sulla follia quando avevo otto anni. Era mio padre. Per venticinque anni è stato direttore del Broadmoor, un ospedale psichiatrico di massima sicurezza vicino a Londra. Non ho mai sofferto di schizofrenia, ma da ragazzino ho imparato da lui molte cose su questa malattia. Dico “malattia”. Oggi si pensa che la schizofrenia sia un insieme di sintomi collegati fra loro, più che una singola patologia: una sindrome, non una malattia. Un tempo si credeva che comportasse una personalità divisa, ma mio padre mi spiegò che più esattamente lo schizofrenico era caratterizzato da una personalità frantumata. Potrebbe essere stata quella conversazione, o una simile, a mettermi sulla strada per scrivere la follia.

Ricordo che una volta, da giovane, ero con lui al crepuscolo e attraversavamo un cortile all’interno delle mura di Broadmoor. Un grido giunse dalle finestre in alto del Blocco Sei. Più di cinquant’anni dopo, le parole “blocco sei” fanno rivivere l’eco della terribile fascinazione che provavo un tempo per quell’edificio. Lì erano ospitati i pazienti maschi più disturbati. Al Blocco Sei andavano i nuovi arrivati, uomini che per la maggior parte, in preda alla psicosi, avevano commesso atti di grande violenza, spesso omicidi. Ma non era un grido di demenza furiosa quello che sentii quella sera; era un grido che esprimeva la più profonda infelicità.

“Povero John”, disse mio padre, e io capii che lui capiva la sofferenza del suo paziente, e il fatto che capisse privava il grido del suo carattere spaventoso. Per poter scrivere la follia bisogna prima riconoscere l’umanità di chi soffre, e poi stabilire perché soffre.

Le mie prime letture sono state in gran parte racconti horror. Divoravo i libri di Algernon Blackwood, M. R. James e Sheridan LeFanu, e più tardi quelli di Ambrose Bierce e Edgar Allan Poe, che svilupparono in me un gusto duraturo per la letteratura gotica. In seguito giunsi alla conclusione che con Poe si ebbe nella storia del gotico un momento di svolta, quando il genere largamente identificato con i fenomeni soprannaturali si rivolse alle disfunzioni psicologiche e scoprì nella mente che si disintegra un filone d’oro nero. Con Poe infatti la dote e la funzione particolare della narrativa gotica divenne l’esposizione dei meccanismi inconsci. Un mondo di incubi e fantasmi, di sublimazione, regressione e spaesamento, di Doppelgänger e altri mostri dell’Id fu abbondantemente esplorato più di un secolo prima che Freud organizzasse il materiale in base a una teoria e scrivesse la follia dall’interno di un paradigma scientifico. La teoria psicoanalitica e i case studies che la puntellano sono la continuazione del romanzo gotico con altri mezzi.

Nei suoi racconti horror Poe offrì al mondo una bella collezione di nevrotici, paranoici e psicopatici. Penso in particolare ai narratori dementi del Cuore rivelatore e del Gatto nero, e anche a Roderick Usher e a William Wilson. Ma non credo che nessuno dei personaggi di Poe sia spaventosamente pazzo quanto Montresor, colui che narra La botte di Amontillado.

Il resoconto, da parte di Montresor, della sua esacerbata amicizia con un uomo di nome Fortunato incomincia, nella prima frase del testo, con una minaccia. “Le mille offese di Fortunato le avevo sopportate come meglio potevo, ma quando arrivò all’insulto giurai di vendicarmi”. Che ricchezza patologica rivelano queste parole! – giacché ben presto appare chiaramente che le “mille offese” di cui parla Montresor sono per lui meno gravi dell’“insulto” che dichiara di aver subito.

Che cosa sono dunque queste mille offese? Sono gesti di disprezzo? Allusioni, magari, accenni e sussurri? Man mano che il racconto si dipana, con crescente disagio incominciamo a capire che è a causa di questo disprezzo, e dell’insulto che ne consegue, che Montresor ha murato l’amico nelle cantine di un palazzo veneziano in rovina e l’ha lasciato lì a morire. Questo è uno scrivere la follia di altissimo livello.

È anche uno dei primi buoni esempi di narratore inattendibile. Dopo averci introdotto nella paranoia di Montresor con quella prima frase, Poe non ci lascia più scampo. Come il povero Fortunato, anche noi siamo rinchiusi in una struttura soffocante da cui solo la morte – o la fine del racconto – può liberarci. Fino a quel momento, siamo prigionieri di una logica perfetta, se non fosse che è costruita su una premessa falsa, folle.

I miei esperimenti nell’arte oscura di scrivere la follia incominciarono davvero con un romanzo che riecheggiava alla lontana Poe. Voleva essere il semplice racconto di un idraulico londinese che uccide la moglie per potersi portare in casa l’amante, una prostituta. Ebbi l’idea di far raccontare la storia al figlio bambino dell’idraulico. Poi decisi che il bambino doveva ricordare questi fatti da adulto, ma che la sua rievocazione non corrispondeva a ciò che era accaduto. Poi mi venne in mente che il mio narratore non fosse semplicemente inaffidabile, ma psicotico. Soffriva di schizofrenia.

Qui il problema di scrivere la follia mi si presentò per la prima volta forte e chiaro. La narrativa d’invenzione e la psicosi sono entità che si escludono a vicenda. Il figlio del mio idraulico non possedeva l’agghiacciante rigore intellettuale del Montresor di Poe, ma era nondimeno malato, una creatura disorganizzata i cui pensieri saltavano di palo in frasca a seconda di ciò che gli era intorno e delle associazioni apparentemente casuali che scattavano nella sua mente confusa. Soprannominato “Spider” dalla madre – prima della morte prematura di costei – il suo cervello non curato era un insieme incoerente di irrazionalità, allucinazioni e illusioni sensoriali.

Il romanzo, tuttavia, per come allora concepivo il genere – ero solo alla seconda prova – richiede una sorta di crescendo narrativo fondato sul principio di causa, che alla fine garantisce un quadro coerente. L’obiettivo era dunque rendere il caos fluttuante della psicosi all’interno della struttura ordinata della narrazione, senza falsare la rappresentazione della malattia e senza rendere oscuro il progresso della trama.

I resoconti ravvicinati della follia nella letteratura d’invenzione sono più rari di quanto si pensi, a parte Poe; e nel XIX secolo tendevano al gotico. Wieland è un cupo romanzo delle origini della letteratura americana che parla di un delitto seguito da un suicidio. Scritto da Charles Brockden Brown, è stato pubblicato nel 1798. La storia non è narrata dal pazzo in prima persona, ma da sua sorella. Descrive una patologia fin troppo familiare ai giorni nostri, delle “voci” che ordinano a un uomo confuso di vibrare un colpo fatale alla propria famiglia.

Wieland ha avuto qualche influenza sulla storia di Spider, ma più utile per i miei scopi è stato un racconto scritto quasi un secolo dopo, La tappezzeria gialla di Charlotte Perkins Gilman. L’autrice era una femminista, una filosofa, una socialista e un’attivista, ed ebbe l’ispirazione a scrivere il racconto dopo essere stata sottoposta a quella che nel XIX secolo si chiamava “la cura del riposo”. Era un trattamento prescritto alle donne considerate isteriche ed era stato inventato da Silas Weir Mitchell, un celebre neurologo di Filadelfia.

Secondo quanto racconta, Gilman fu presa da tale disperazione, privata per tre mesi di libri, attività e altri stimoli, che conservò la ragione solo rimettendosi a scrivere; il suo racconto doveva convincere Weir Mitchell che i suoi metodi erano sbagliati. La voce narrante è quella di una donna il cui marito medico non le permette di lasciare la camera da letto dove deve riprendersi dalla sua “momentanea depressione nervosa – una leggera tendenza isterica”.

La donna incomincia a impazzire.

Di particolare interesse per me era la precisione con cui la narratrice della Gilman descrive gli stadi della sua crisi. Essa non si rende minimamente conto che il suo è un rapido sprofondare nella psicosi, che comporta una bizzarra serie di illusioni concentrate intorno alla tappezzeria gialla della camera da letto in cui è imprigionata. Senza dubbio c’è del metodo nella sua pazzia e ogni tappa della discesa deriva con logica implacabile dalla precedente. E come con il Montresor di Poe, tutto ha un senso – a parte la folle premessa iniziale.

Immaginai che anche il mio personaggio, Spider, sprofondasse nella follia per tappe, e in conseguenza di un’ipotesi sbagliata. Immaginai che tornasse nel quartiere orientale di Londra in cui era cresciuto, un uomo sparuto, che parla da solo e che nel suo vagabondare solitario si accorge che il suo sguardo è attratto in maniera irresistibile dall’incombente struttura circolare di un gasometro, una vista non insolita in quella parte della città. E che lo riempie di orrore. Immaginai anche che, anni prima, sua madre fosse tornata a casa dal pub una sera tardi, si fosse addormentata in cucina e fosse morta per le esalazioni del gas. Il lettore però lo scopre solo dopo un po’.

Una notte, mentre Spider è seduto nella sua squallida stanza in un centro di accoglienza della zona, percepisce un odore sgradevole. Si accorge che proviene da lui stesso e che è odore di gas. Si strappa di dosso i vestiti e sì, non c’è dubbio – è gas!

Il lettore capisce che per quest’uomo fragile e disturbato il gas ha un significato terribile. Ma perché? Quella notte Spider prende i fogli di giornale ingiallito che rivestono i cassetti della sua stanza e se li attacca sul torace con della plastilina e dello spago. Quando è avvolto nei giornali dal collo all’inguine si rimette i vestiti, tutti i vestiti, per sopprimere meglio che può quell’odore raccapricciante.

In seguito giungerà a convincersi che puzza di gas perché sta andando a male dentro. I suoi organi stanno atrofizzandosi e marcendo, incominciano a scomparire – e così via. A questo punto spero che il mio lettore veda Spider non come un mostro di irrazionalità, e neanche come un triste caso di comune follia. No, io vorrei che il lettore interpretasse il tormento di Spider, comprendesse come la convinzione di puzzare di gas sia connessa alla certezza della propria cattiveria, della propria colpa. Sembra roba da matti, e lo è. Ma nessuno psichiatra che abbia curato la schizofrenia resterà sorpreso da questa fioritura di illusioni sensoriali.

Mentre facevo ricerche sulla schizofrenia per il libro mi sono imbattuto in una frase dell’Io diviso di R. D. Laing, forse il miglior testo sulla schizofrenia mai scritto, che forniva la chiave per capire il personaggio a cui tentavo di dare vita sulla pagina. Lo schizofrenico, diceva Laing, “muore di sete in un mondo d’acqua”. Io vedevo un uomo che viveva in un quartiere di Londra, ma così isolato, così profondamente separato, da non riuscire a stabilire contatti umani e a conoscere l’amore, o anche l’amicizia, o anche il semplice calore che si ricava dalla normale interazione quotidiana con gli altri. Spider muore di sete in un mondo d’acqua e per uno scrittore della follia questa era un’intuizione senza prezzo.

*

Il romanzo sulla follia nel XX secolo è spesso caratterizzato da una sorta di naturalismo assente nella più stilizzata produzione di genere dell’epoca precedente. Ciò segna un allontanamento dal gotico, anche se tende a seguire Charlotte Perkins Gilman nell’attenzione alla donna disturbata nelle mani di un uomo, sia esso un medico, un marito o un maschio qualsiasi. Tre straordinari romanzi sulla follia, tutti scritti negli anni Sessanta, e tutti da donne, esplorano il tema con dettagli spesso tremendi. Nella Campana di vetro, il devastante resoconto della crisi mentale di Sylvia Plath, una giovane donna si aliena da tutto ciò che le è familiare e scivola più che sprofondare nella follia, diventando sempre più sola e soggetta a percezioni bizzarramente distorte. A un certo punto scorge nella bocca di un’amica uno spirito maligno, un dybbuk, che si è impadronito del suo corpo e parla attraverso di lei. In seguito la giovane donna tenta il suicidio e viene ricoverata. “Mi sentivo come se fossi seduta nella vetrina di un enorme magazzino”, scrive. “Le figure intorno a me non erano persone, ma manichini, dipinti per sembrare persone e messi in atteggiamenti che imitavano la vita”.

Continua a pensare senza tregua al suicidio. Si taglierà i polsi? si chiede. Si annegherà in mare? Si sottopone alla prima seduta di elettroshock: “… e a ogni scarica un forte sussulto mi scuoteva, finché pensai che mi si rompessero le ossa e la linfa schizzasse fuori da me come da una pianta spezzata”. L’orrore della pazzia, e dei metodi utilizzati per curarla, è reso tanto più vivido per il fatto che viene descritto con estrema acutezza e lucidità clinica. Alla fine è la semplice immagine della campana di vetro che esprime alla perfezione l’inferno della donna che soffoca: “… dovunque sedessi… sarei sempre stata seduta sotto alla medesima campana di vetro, a cuocere nella mia amarezza”.

Il racconto di Sylvia Plath fu rispecchiato con crudele precisione dagli avvenimenti della sua breve vita. Quando il libro uscì in Inghilterra, dove viveva allora, lei stava male. Il suo matrimonio col poeta Ted Hughes era in pezzi. Non aveva denaro. Viveva in un appartamento spoglio con i due figli piccoli nell’inverno più freddo del secolo, e tutti e tre avevano l’influenza. La campana di vetro scese di nuovo, come Sylvia Plath aveva sempre temuto che accadesse, e lei cadde in una profonda depressione. Si uccise col gas l’11 febbraio 1963. Aveva trent’anni.

Contemporanea di Sylvia Plath fu la scrittrice neozelandese Janet Frame, il cui romanzo Volti nell’acqua dà un’immagine ancora più terrificante dell’incarcerazione psichiatrica e dell’elettroshock. Il romanzo si svolge tutto all’interno di un manicomio femminile e fra tutti gli orrori di quel luogo la narratrice si scopre a “temere sempre di più il rumore del carrello e le urla soffocate mentre si spostava di stanza in stanza, sempre più vicino. E all’improvviso la luminosità del Reparto Sette sembrava esplodere in una vegetazione caotica e abbagliante, come se la sua presenza servisse solo a nascondere i movimenti di rettili mortiferi e insetti velenosi….” Il carrello contiene la strumentazione necessaria per somministrare l’elettroshock.

Ma poi interviene una straordinaria variazione sul tema. Jean Rhys è una scrittrice le cui opere sono state ampiamente lette negli anni Trenta, ma che era diventata in seguito talmente invisibile che molti pensavano fosse morta. Invece lei aveva dentro un ultimo libro, Il grande mare dei Sargassi, in cui prende il capolavoro gotico di Charlotte Brontë, Jane Eyre, e racconta la storia non di Jane, ma della defunta moglie di Rochester, Bertha, rinchiusa nel solaio della sua grande casa. Jean Rhys immagina la giovinezza di Bertha, trascorsa sull’isola caraibica della Dominica come Antoinette Cosway, ereditiera creola. Strappata a quella vita e portata in un paese freddo e lontano da un uomo che è arrivata a odiare, la donna impazzisce, e nella sua follia distrugge la casa del marito. Il romanzo di Charlotte Brontë viene così capovolto mentre la nostra attenzione passa dalle tribolazioni di Jane alla comprensione della donna prigioniera in solaio, di ciò che ha sofferto e delle ragioni per cui brucia la grande casa, distruggendo nello stesso tempo se stessa.

Il romanzo della follia è spesso stato messo al servizio di un attacco femminista al potere maschile: nel Grande mare dei Sargassi ciò è particolarmente chiaro. Ma vorrei concludere con un romanzo meno notevole per le sofferenze del matto che lo racconta – non ci sono prove che soffra affatto – che per le sue originalissime illusioni. Questo romanzo è Fuoco pallido e l’autore è Nabokov, il protagonista è un certo Charles Kinbote, un professore universitario, e il libro è incentrato su una poesia di 999 versi intitolata Fuoco pallido. Nella introduzione ad essa, Kinbote fornisce al lettore attento il primo dei molti indizi sulla sua visione distorta della realtà. A un certo momento accenna en passant a “una certa feroce signora” che lo avvicina in una drogheria. “Lei è una persona assai sgradevole”, gli dice, e aggiunge: “Per di più, è pazzo”.

Si accende una lampadina. Sospettiamo il peggio. La poesia Fuoco pallido, di cui è autore l’ammiratissimo vicino e presunto amico di Kinbote, John Shade, è riportata integralmente all’interno del romanzo, e occupa 36 pagine, nella mia edizione. Segue il commento di Kinbote, che occupa quasi 230 pagine, per lo più dedicate non all’esegesi della poesia, ma piuttosto a sostenere che Kinbote è il re di un lontano paese di nome Zembla ed è stato costretto a fuggire dal proprio palazzo dopo essere stato posto agli arresti domiciliari dagli Estremisti. Kinbote ha compiuto una pericolosa fuga tra le montagne e finalmente è approdato in un campus universitario americano, sempre inseguito da un delinquente violento di nome Gradus, incaricato dai suoi nemici, gli Estremisti, di assassinarlo.

Siamo senza dubbio in presenza di una follia bella e buona, qui. La sua chiave è la grandiosità, espressa mediante magnifiche illusioni. Nella poesia di John Shade, che è una lunga riflessione sulla mortalità, sulla possibilità di una vita dopo la morte e sulla morte della figlia del poeta, Kinbote scopre infatti abbondanti riferimenti alla propria vita di re della lontana Zembla. “Alla fine di maggio”, scrive commentando il verso 42 di Shade, in cui il poeta parla della sua casa piuttosto comune, “ho scoperto le tracce di alcune mie immagini nella forma che il suo genio ha conferito loro; a metà giugno ho raggiunto finalmente la certezza che Shade ha voluto ricreare in una poesia l’abbagliante Zembla che mi arde nella mente. L’ho affascinato con essa, l’ho riempito della mia visione, ho impresso in lui, con la selvaggia generosità di un alcolizzato, tutto ciò che ero personalmente incapace di mettere in versi”. E quando John Shade viene ucciso, Kinbote sa che l’assassino è Gradus, l’uomo incaricato dagli Estremisti di uccidere lui, e la cui pallottola ha colpito l’uomo sbagliato.

Le interpretazioni di questo romanzo abbondano. Molti pensano che Kinbote sia l’alter ego di un professore russo pazzo, V. Botkin, verso il quale John Shade e gli altri membri della facoltà si mostrano condiscendenti; che Zembla non esista; che l’assassino sia un matto evaso di nome James Gray, la cui pallottola non era destinata a Kinbote, né a John Shade, ma al giudice che l’ha mandato in manicomio, con cui ha scambiato John Shade. Che questa semplice, tragica storia sia trasformata nell’elaborata vicenda di un tentato regicidio è un omaggio alla forza delle illusioni del professore folle. Qui la follia è al servizio di un grande, amaro scherzo: una risata nell’oscurità.

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Lo psicoanalista Jacques Lacan una volta ha definito la produzione verbale degli schizofrenici come “linguaggio senza discorso”. È una formula utile, ma per il romanziere non è sufficiente. Un discorso – una storia coerente – dev’essere percepibile anche nelle più selvagge divagazioni di un narratore folle, come il Montresor di Poe, la Bertha Rochester di Rhys o il Charles Kinbote di Nabokov.

Tecnicamente, si tratta di un tipo di narrativa molto difficile, ma non priva di regole e di struttura. La follia non è mai arbitraria, mai casuale nelle sue manifestazioni o nelle sue cause. La lettrice che si è riusciti a far diventare una specie di detective psichiatrica si troverà alle prese, in questo tipo di romanzi, con menti ricche e complesse quanto quelle di qualsiasi altro personaggio letterario. Il fatto che queste menti lavorino per lo più senza rendersi conto delle proprie disfunzionalità non fa che accentuare la loro terribile imprevedibilità.

traduzione di Alberto Cristofori